Natidallospirito.com è venuto in possesso di un manoscritto di un pellegrino australiano che ha vissuto nei monasteri di Wadi el Natrun per più di tre anni. Il suo è un romanzo di formazione che si basa sulla propria esperienza spirituale a stretto contatto con un eremita del deserto e ha come titolo “The diary of an undisciplined disciple”, “Il diario di un discepolo indisciplinato”. L’autore, che ha deciso di rimanere anonimo, ha scelto di non pubblicare il suo romanzo per ragioni personali a noi ignote ma di lasciarlo in consegna a uno dei monasteri di Wadi el Natrun e ha autorizzato Natidallospirito.com a tradurlo. Lo pubblicheremo a puntate.
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9a puntata
Dopo aver pranzato insieme, l’eremita mi propose di passeggiare nel deserto. Il sole picchiava forte ma il caldo era sopportabile. Non finii nemmeno di pensare a come avrei fatto a camminare con quel sole che mi disse:
– Aspetta, vado a prendere una cosa in cella. Torno subito.
Pensai subito fosse un altro dei suoi scherzetti. Tornò correndo con il sorriso sulle labbra, come se avesse appena comprato un giocattolo per un bambino.
– Voi occidentali soffrite per il nostro caldo. Ecco, vedi, è bello, ha tutto. L’aletta ti coprirà.
Era un cappellino di stoffa da spiaggia dai colori piuttosto kitsch. Ma era talmente contento di avermelo portato che non osai contraddirlo.
– Grazie abuna, vediamo se mi va.
Effettivamente il cappellino si rivelò molto utile nonostante la non promettente estetica e mi aiutò ad attutire un po’ i raggi solari diretti. Dopo aver preso con sé un bastone e un sacchetto nero, iniziamo a camminare. Davanti a noi una distesa enorme di colore giallo scuro e verde senza soluzione di continuità che ondeggiava sotto l’effetto del vento del deserto. Un mare giallognolo si spostava lentamente, ora dopo ora, sospinto dal vento che, quel giorno, faceva danzare delicatamente le palme. Ettari ed ettari di piantagioni nascondevano agli occhi di chi viveva sulla collinetta la sabbia ai piedi degli alberi. Qui la sabbia era ovunque. L’unico modo per conviverci era accettare la sua presenza senza immaginare di poterla sopraffare.
Per i primi dieci minuti rimanemmo entrambi in silenzio. Sentivamo soltanto il soffio del vento e i nostri passi nella sabbia. Poi all’improvviso fischiò e gridò con una voce stridula e buffa: Helpiiiiiis. Attorno a noi comparve un cane che somigliava molto a un lupo. Iniziò a fargli le feste. Non si capiva bene chi dei due fosse più contento di vedere l’altro. Si era talmente immedesimato con Helpis che sembravano di famiglia, si parlavano con degli strani versi. Mentre il cane lupo saltellava gioiosamente lui gli lanciava dei pezzettini di pollo essiccato che aveva portato con sé nel sacchetto.
– Vedi com’è contento, Joshua? È proprio contento!
– Anche tu abuna mi sembri altrettanto contento.
– Ci conosciamo da molti anni ormai ma non ho mai pensato di portarlo da me e di legarlo con una catena. Mi piace pensare che viva libero per il deserto, andando a caccia di serpentelli e di gazzelle. Ogni tanto passa da me oppure lo chiamo per salutarlo. Certo poi a volte fa il birbantello e devo andarlo a recuperare dai beduini che passano di qui. Vuole giocare con i loro cammelli ma loro non gradiscono molto…
C’era una purezza in quegli occhi, un candore in quelle parole, che ricordavo di aver intravisto solo sul viso dei bambini. Eppure quell’uomo aveva superato i sessant’anni e allo stesso tempo non sembrava per nulla “infantile” ma anzi nel pieno della sua maturità. La cosa allo stesso tempo meravigliosa e terribile era che anch’io in qualche modo iniziavo a sentirmi un bambino. Mi sembrava di reimparare l’alfabeto della vita da zero.
Ogni tanto gli tirava il bastone e il cane, come fosse addestrato, glielo riportava, felice e orgoglioso.
– Vedi Joshua – mi disse mentre dava da mangiare a Helpis – l’ho chiamato Helpis perché la prima cosa che un cristiano deve imparare è mettere la sua speranza, tutta il suo affidamento, in Dio solo. Nel momento in cui si affida a Dio completamente, senza riserve, fidandosi e confidando totalmente, inizia per lui una nuova vita che è luce e pace anche nel bel mezzo delle avversità.
– Credo che io debba imparare molte cose, anche a credere nell’esistenza di un Dio…
– Fratello, sei arrivato fin qui e vuoi ancora credere che Dio non esista? Vuoi una prova scientifica della sua esistenza? Lo so voi occidentali volete prove scientifiche. Allora eccola: entra nel tuo cuore e medita sugli ultimi anni della tua vita. Se intravedi un filo d’oro che percorre come una collana tutti gli avvenimenti della tua esistenza, aggrappati a esso. I santi del deserto ti aiuteranno a trovarlo…
– I santi del deserto? Chi?
– Qui c’è un esercito invisibile! Generazioni e generazioni di testimoni dell’amore di Cristo. Non temere, poi capirai.
– Abuna, io non so da dove cominciare, sono arrivato al fondo dell’esistenza.
Tacque per qualche istante poi mi sorrise. La sua voce si fece tenera e paterna.
– Non temere, Cristo è in mezzo a noi.
Nel dire questo si fece il segno della croce.
Non so perché ma iniziai a parlargli di Liza. Gli raccontai della nostra storia fin dall’inizio e di come la crisi tra di noi avesse avuto un impatto enorme sulla mia vita fino a togliermi del tutto la voglia di vivere.
– Abuna, per me è stata la prima vera disfatta della mia vita. Ho sempre avuto successo in tutto nella vita, sia sul lavoro che con le donne. Ma con Liza… A un certo punto, non so dire con esattezza quando, ma sicuramente a crisi inoltrata, Liza iniziò a star male. Si chiuse a riccio, non mi parlava quasi più. Spesso trascorreva giornate intere da sola. Da un certo momento in poi ci incontravamo in casa soltanto a cena. Io ero fuori tutta la giornata e spesso ne approfittavo per trascorrere del tempo con Melanie. Quando tornavo a casa mangiavamo in silenzio. Talvolta questo silenzio era interrotto da parole di circostanza. Altre volte, molto più spesso, dai pianti di lei. Liza mi diceva che ormai non mi riconosceva più e che aveva bisogno di spazio. Diceva che non respirava più con me, che era diventata una donna spenta e insoddisfatta.
Mentre parlavo l’eremita tirò fuori dalla tasca una piccola croce di legno. Aveva un gambo per tenerla in mano. Il gambo si apriva poi a formare una croce che sembrava un fiore. Nella sinistra teneva il bastone e nella destra la croce.
– Da allora – proseguii – si innescò un processo a catena di cui non riesco ancora a mettere a fuoco le fasi. Iniziò a fare ippoterapia.
– Ippo…?
– Ippoterapia. Sì forse qui non è diffusa, è vero. È una psicoterapia che si fonda sull’interazione con i cavalli.
– Esiste una terapia con i cani?
– Sì, si chiama cinoterapia.
– Ecco, vedi, si impara sempre qualcosa di nuovo. Sono anch’io in cinoterapia!
Scoppiamo a ridere. Poi entrambi tacemmo. Era talmente faticoso quello che dicevo che non sapevo se continuare o no. A un certo punto mi disse:
– Vieni, Joshua, sediamoci su questa roccia.
Eravamo ormai prossimi al tramonto. Un sole infuocato pennellava di sfumature rossastre tutto l’orizzonte. C’era una quiete indescrivibile. La roccia su cui ci sedemmo sembrava antica quanto la terra. Nonostante fosse erosa dai secoli riusciva ancora a offrire riposo ai viandanti. L’eremita mi sorrise. Era un modo, mi sembrava di capire, per dirmi con gentilezza: “Se vuoi, continua”. Confortato da quella pace, ripresi a parlare.
– Liza mi diceva che i cavalli erano molto più empatici di me e che erano capaci di un contatto profondo. Aveva bisogno di emozioni e i cavalli, a differenza di me, erano capaci di dargliene in abbondanza. Il prendersi cura di questi esseri innocenti, l’accudirli, il dar loro da mangiare la aiutavano a sopportare l’idea di non potere avere figli da me. Si sentiva capita, diceva, incoraggiata, accettata per ciò che era. Il contatto fisico con l’animale le permetteva finalmente di provare un benessere dimenticato. Semplicemente sfiorarne la criniera era diventato per lei fonte di gioia. C’era qualcosa di infantile in quel suo desiderio di stare con il cavallo. Era come se il gioco avesse riacceso in lei la fantasia, le avesse permesso di esprimere emozioni e sensazioni bloccate, che non riusciva più ad esternare con me. Di fatto poco dopo riprese a dipingere dopo essersi fermata per molti anni. Fin dall’inizio non ho mai veramente trovato una connessione con la sua pittura. Mi sembrava troppo naive, non mi piaceva. Lei ha sempre vissuto questa passione da sola. Forse ho sbagliato a non incoraggiarla, a non farle sentire che le stavo vicino…
L’eremita si mise le mani in tasca. Tirò fuori un disco di noccioline e miele.
– Conosci la “fuliyya”?
– No.
– Assaggia, penso ti piacerà.
Appena diedi il primo morso fui felicissimo.
– Oh, buonissima! Voglio comprarne un po’, credo che possano aiutarmi nei momenti di crisi come questi.
– Non ti preoccupare, ne ho una scorta in cella. Proprio per gli occidentali in crisi come te.
– Insomma, sai abuna, durante i corsi di ippoterapia Liza conobbe Peter, un pittore surfista di origini irlandesi, con cui iniziò una relazione. La cosa non mi ferì molto visto che avevo anch’io la mia relazione segreta con Melanie che mi aiutava nei momenti difficili. Ma la mia era più una relazione adolescenziale mentre la sua relazione si sviluppò molto rapidamente. Poco dopo andò a vivere da Peter a Derrimut, un quartiere residenziale di Melbourne. E tre mesi dopo mi arrivò la lettera del suo avvocato con cui mi chiedeva il divorzio. Per me fu un fulmine a ciel sereno.
Mi fermai. Trattenni a stento le lacrime. Lui lo capì. Tacemmo un po’. Il sole iniziava a sfiorare delicatamente la linea ondulata dell’orizzonte.
– Poi un giorno in preda a una crisi venne a trovarmi. Era sconvolta, diceva che aveva sbagliato a chiedere il divorzio e che mi amava ancora. Io non sapevo che fare e per cercare di calmarla iniziai a bere. Lei, come in preda a un rimorso insanabile, pensò di farsi perdonare facendo l’amore. Restammo tutta la notte insieme poi andò via. Tempo dopo venni a sapere da una nostra amica in comune che Liza era rimasta incinta di me… Mi sentivo tradito, preso in giro.
– Sai, Joshua qual è il tuo problema? – mi disse.
– No.
– Che tu ti sei sposato prima di diventare monaco.
– Monaco? I monaci si sposano?
– No, no, non ci sposiamo. Ma, vedi, se tu fossi diventato monaco prima di sposarti ora non avresti tutti questi problemi. Quando uno diventa monaco impara l’umiltà, la pazienza, la sopportazione, il senso di sacrificio, la sottomissione ai fratelli, la continenza, la mitezza, la non possessione, la rinuncia, oltre che l’obbedienza all’abate. E al di sopra di tutte, la regina di tutte le virtù, la madre bella e generosa che con la croce partorisce raggi di luce, c’è l’amore. È molto facile acquisire le virtù quando Cristo fa soffiare in noi il suo amore per noi. Ma il più delle volte siamo costretti a faticare per acquisire anche una piccola porzione di una piccola virtù. Il Signore ci fa faticare per farci capire quanto siamo deboli e incapaci… Sono tutte qualità, queste che ti ho elencato, che, anche se spesso noi monaci non vi eccelliamo – soprattutto quest’asino che ti parla – tuttavia aiutano a vivere con gli altri in pace, soprattutto con quelli con cui siamo a stretto contatto. A te avrebbero certamente aiutato. Ma soprattutto, vedi Joshua, diventare monaci, monachos, significa vivere una relazione intima e costante con il Signore Gesù Cristo. Se anche Liza fosse diventata monaca sarebbe stato un matrimonio perfetto: ti immagini due monaci insieme?
Non avevo mai pensato al matrimonio in questi termini.
– Certo – riprese l’eremita – ora è un po’ tardi per te. Qui l’età massima dei novizi è 30 anni e di solito non accettiamo i mariti in crisi.
Sorridemmo entrambi.
– Ma il buon Dio – continuò – può lavorarti i fianchi per farti diventare perlomeno un buon postulante. Per fare questo andrai e verrai dal monastero, se sei d’accordo. Ciò significa che starai un po’ con i fratelli e con gli ospiti. A furia di strusciare e fare scintille con i fratelli – mi diceva il mio padre spirituale, che le sue preghiere ci sostengano – i monaci finiscono per diventare lucidi come specchi. Diventa monaco nel cuore, caro Joshua, e sperimenterai la vita. Monachos in greco vuol dire ‘solo’, monaco significa avere una relazione intima di ‘solo’ a ‘Solo’ con Dio. Se deciderai di morire al mondo e di far morire il mondo a te vivrai per Dio in Cristo Gesù, vivrai una vita piena. La stessa vita del Cristo.
– Ma che cosa significa? Io non sono fatto per fare il monaco, non ho la stoffa.
– Neanche io ce l’ho ma il Signore è un ottimo sarto. Conosci quel passo di Geremia che dice: “Può un Etiope cambiare la pelle o un leopardo il suo manto maculato? Allo stesso modo: potrete fare il bene voi, abituati a fare il male?” (Ger 13,23). Ovviamente il profeta diceva così perché non conosceva Michael Jackson.
Scoppiamo a ridere.
– Geremia era molto pessimista. Non conosceva ancora la gloria che splende sul volto di Cristo. A lui noi cristiani rispondiamo: sì! In Cristo il leopardo può cambiare le macchie e l’Etiope divenire bianco. In Cristo possiamo spogliarci della nostra pelle ispessita per il peccato e indossare una pelle nuova. Possiamo svestirci della stoffa consumata e rattrappita dell’uomo vecchio e lasciarci cucire addosso la stoffa preziosa del Regno.
Poi, messosi la mano in tasca, ne tirò fuori una croce.
– Prendi questa piccola croce. Ti sarà utile nei momenti difficili. Tienila stretta in mano e chiedi aiuto. Vedrai, non resterai deluso.
Annuii in silenzio.
Da lontano vedemmo Helpis correre a grandi zampate verso di noi. Si sedette ai piedi dell’eremita, esausto per la corsa ma felice per la compagnia del suo amico.
traduzione di Natidallospirito.com
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