Natidallospirito.com è venuto in possesso di un manoscritto di un pellegrino australiano che ha vissuto nei monasteri di Wadi el Natrun per più di tre anni. Il suo è un romanzo di formazione che si basa sulla propria esperienza spirituale a stretto contatto con un eremita del deserto e ha come titolo “The diary of an undisciplined disciple”, “Il diario di un discepolo indisciplinato”. L’autore, che ha deciso di rimanere anonimo, ha scelto di non pubblicare il suo romanzo per ragioni personali a noi ignote ma di lasciarlo in consegna a uno dei monasteri di Wadi el Natrun e ha autorizzato Natidallospirito.com a tradurlo. Lo pubblicheremo a puntate. La prima puntata è qui.
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“Vita di Antonio”. Lo comprai insieme a della paccottiglia. Pagai in fretta. Volevo cercare di intercettare la “ragazza di Antonio” che mi aveva consigliato di comprare il libro. Uscii correndo, senza prendere il resto. Aprii la grande porta vetrata e mi guardai attorno più volte. Non c’era. Mi diressi sul lungomare, verso l’Esplanade. Presi posto su una panchina. Mi faceva una strana impressione guardare tutte quelle famiglie felici che giocavano con i loro bambini o passeggiavano serenamente. Mi chiesi se quella serenità, talvolta ostentata, non fosse frutto di una sorta di tregua segreta, seguita a una lunga serie di litigi. Una specie di accettabile ricatto del tipo “se fai questo, io ti do pace in quella situazione” oppure “vabbene passeggiare sul lungo mare, ma poi tu farai questo per me”. Esisteva davvero l’amore tra le persone e soprattutto nelle coppie? Oppure era tutta una illusione, un prendere fischi per fiaschi, un vedere “rosa” quando tutto dice “nero”? Perché ci facciamo ingannare così facilmente dalle apparenze, dai sogni, dalle speranze, non volendo accettarne per lungo tempo il vero nome: illusioni? Fino al giorno in cui tutti i veli sono tolti e rimane solo il volto, brutto, dell’esistenza. Tutto in quel lungomare mi ricordava della mia situazione di papà divorziato e non riuscivo a nascondermene lo strazio.
Poi quella copertina fu come se mi rapì. Abbassai il capo sul libro, cercando di distrarmi dalle “coppie felici”. Restai a lungo rapito a guardarla. Non avevo mai visto qualcosa di tanto semplice quanto estremamente attraente. Raramente noi pubblicitari riusciamo a produrre qualcosa veramente di semplice e efficace allo stesso tempo. Nel nostro campo, quello della pubblicità, la semplicità è quasi sempre il frutto di una complessità semplificata. Non esiste il concetto di semplicità in quanto tale: la semplicità va pensata, va elaborata, va complessamente partorita. Non solo. Noi offriamo una semplicità, non solo complessa, ma a fine di lucro. A me mancava, invece, una semplicità, non solo semplice di per sé, partorita così per natura, ma anche gratuita. La gratuità. Che cos’è la gratuità? Io non lo so. Non lo sapevo. Ora posso immaginarlo, forse l’ho intuito, dopo la rinascita seguita all’incontro con l’eremita. Ma allora… Per me nulla era gratuito. “Tutto si compra e si vende. Il mondo è un grande mercato”, pensavo e ne ero totalmente convinto. Gratuità. Una roba che ricordavo di aver vissuto, forse da piccolo, ma che oramai faceva parte di un passato talmente offuscato e seppellito da sembrare ridicolo, fonte di un insostenibile imbarazzo. Antonio, l’abba del deserto egiziano, a dire la verità, mi turbava proprio per questo. Quest’uomo mi indicava con un atteggiamento al contempo dolce ma deciso di accomodarmi ai banchi della scuola della gratuità senza fare troppe storie. Era come se mi dicesse: “Hai perso troppo tempo ma non è troppo tardi. Avvicinati, siediti. Hai tanto da imparare”. Antonio aveva quel qualcosa che io non avevo, e che cercavo disperatamente sotto la coltre della mia rispettabile, rispettabilissima, matura coscienza da adulto, per la quale questi sono “discorsi da bambini”. Quanto desideravo avere quello che lui aveva! Lasciare tutto all’udire una parola di Gesù: “Va’ vendi ciò che possiede, e vieni, seguimi”. Seguimi. Provavo ammirazione mista a invidia. Mi dava speranza, Antonio, e mi inquietava. Chi avrei seguito io in questo modo se non forse qualcuno che mi avrebbe promesso qualcosa di talmente tangibile da non poter essere nascosto: una carriera, un appartamento, un po’ di fama? Era possibile nascondere tutto questo? Invece la vita di Antonio è una vita fatta di nascondimento totale, lontano da tutti, lontano dal giudizio degli altri, lontano dalle chiacchiere, dalla voglia di apparire, di arrivare, di scavalcare. Per Antonio essere qualcuno non si acquisiva scalciando, cercando di arrivare, di avere un “titolo”, un buon posto di lavoro. Per Antonio “essere qualcuno” ha significato esistere per qualcuno, o forse, come mi ha ripetuto spesso l’eremita “essere IN qualcuno”. La mia vita, fatta di apparenza più che di sostanza, di compromessi più che valori, di seduzione più che di comunione, di dominio più che di sottomissione, viaggiava su un binario del tutto differente. E intravedevo la fine di questo binario morto, una fine verso la quale procedevo a una velocità terribile, inesorabilmente.
All’inizio, sfogliando quel libro, “Vita di Antonio”, mi sembrava di intravedere qualcosa di bello, mi sembra davvero di intravedere la vita, dopo tanta morte interiore. Con la mia mente programmata dell’epoca pensavo che in qualche modo il suo “prodotto” era migliore del mio. Come se a me fosse rimasto qualche prodotto da vendere! Non ero ormai al lastrico umano? Come definire quello che vivevo? Ero allo zero cosmico, piombato nel buco nero energetico della mia esistenza. Dentro mi sentivo vuoto, apparentemente senza un motivo. Ero senza un obiettivo, senza una motivazione, senza olfatto esistenziale, come una sorta di zombie vagante di cui persino i morti disdegnavano la compagnia. Sentivo di portare un peso di cui non conoscevo l’origine, un peso non mio, come se sulle spalle avessi il mondo intero. E volevo scrollarmelo di dosso il più velocemente possibile.
Il mio divorzio da Liza era stato la ciliegina sulla torta. Io e Liza ci eravamo conosciuti all’università e avevamo fatto tutto insieme. Siamo stati per molti anni come due adolescenti innamorati, pieni di vita e di ambizione. Lei era un’artista, amava dipingere e ben presto fece della pittura il suo lavoro. Ci amavamo molto, pensavamo di avere molte cose in comune e forse all’inizio le avevamo davvero. Ricordo sempre le sue parole estasiate: “Io e te siamo stati creati per vivere insieme”. Me lo ripeteva spesso e io mi sentivo tremendamente lusingato. Questa lusinga esistenziale, per me che ero un ragazzino alle prime armi con l’amore e la carriera, per molti anni fece sì che vivessi cercando di rispettare una promessa: “Liza, qualunque cosa accadrà, farò di tutto per non deluderti”. Le nostre strade, però, ben presto iniziarono a biforcarsi. L’effetto dell’innamoramento iniziò a svanire, e con esso tutte le promesse fatteci con il luccichio negli occhi. Le maschere caddero e iniziammo a guardarci come due perfetti sconosciuti. “Sei proprio tu quella che ho sposato?”, mi chiedevo al mattino, quando lei ingurgitava di corsa un succo di papaya senza zucchero prima di correre al lavoro. La distanza si fece sempre più enorme. A letto, la sera, restavamo ognuno nel suo angolino, intento a occuparsi delle sue cose: prima con i libri, poi con la televisione, poi, per ultimo, il cellulare. Restavamo ore a guardare le nostre vite parallele nei cellulari scorrere di fronte a noi. Tutto questo ci portò a smettere di comunicare. Pensavamo di conoscerci così bene – e non avevamo più una così buona opinione l’uno dell’altra – che ci parlavamo a sillabe. E ci innervosivamo quando l’altro non capiva i nostri grugniti, quasi pretendendo come diritto inderogabile questo disperato risparmio energetico. Non avevamo piú il coraggio di guardarci negli occhi. I mesi corsero veloci e quello che temevo, quello che cercavo di evitare in tutti i modi, alla fine accadde.
Imboccammo il tunnel della crisi, quella vera, quando lei mi chiese di avere un bambino. Io ero nel pieno della mia carriera. Gli affari con la Golden Advertisements andavano a gonfie vele e lei per me era diventata poco più che una sicurezza casalinga. Per la mia brillante carriera non avrei voluto nessun ostacolo, fosse anche un innocente pargoletto. Resistetti con tutte le mie forze al suo desiderio e i litigi in casa erano diventati all’ordine del giorno. Litigavamo per delle sciocchezze: il colore dei parati, la marca del latte, i programmi da vedere in televisione. Ora posso dire, a distanza di tempo, che il motivo dietro tutti quei litigi era lui, Newton, nostro figlio. Ma no, io un bambino no. Io avevo la mia agenzia pubblicitaria, le campagne che andavano pianificate a costo di restare in ufficio di notte a dormire, i soldi che mi riempivano le tasche, e le amiche. Devo confessare che a complicare il tutto ci fu anche Melanie, la mia stagista, che in quel periodo entrò nella mia vita aiutandomi a dimenticare i problemi di casa. Era giovane, bella, spensierata. Per me era come una ventata di aria fresca nella mia vita. Mi ricordava gli anni leggeri della mia, della nostra giovinezza, quando Liza era felice semplicemente facendo una passeggiata mano nella mano sull’Esplanade di Darwin. E infatti spesso ci tornavo con Melanie, sull’Esplanade. Mi bastava guardarla negli occhi, o mentre si sistemava i capelli dietro le orecchie, per ricordarmi tutto, per capire che cosa avevo perso. Sentivo che era talmente presa da me che potevo chiederle tutto e lei l’avrebbe fatto. Non c’era bisogno di stare ore a discutere, tutto si risolveva con un bacio. Mi sentivo onnipotente, un sentimento che avevo provato sul lavoro ma mai con Liza. Melanie mi aiutava a capire che cosa era andato storto con Liza e mi indicava, senza che io potessi girare la faccia dall’altro lato, che la causa di tutto il mio malessere era Liza e il suo carattere egoista. Più litigavo a casa con Liza, più stavo con Melanie. Più tutto sembra andare a rotoli.
Fu così che seduto di nuovo sull’Esplanade, tutto il mio passato, presente e futuro, furono messi in discussione da Antonio. Quest’uomo mi interrogava senza rivolgermi parola. Mi metteva a nudo, mi passava ai raggi X. E non ne uscivo granché bene. Eppure c’era qualcosa in quell’uomo che mi spingeva a volergli bene, una sorta di autenticità, sincerità, armonia che lo rendeva diverso da tutto ció che mi circondava. Fissai il mare. Respirai a pieni polmoni la brezza salina che risaliva dalla battigia. Iniziava a esser buio. Pensai, quasi come se qualcosa fosse balenato da al di là delle onde, che dovevo andare in Egitto, dovevo incontrare i discepoli di Antonio, dovevo parlare con gli eremiti di oggi. Forse avevano ancora qualcosa da dire. Era una questione di vita o di morte.
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