Dico che conviene moltissimo, a tutti quelli che vogliono essere discepoli di Cristo, gloriarsi della corona dell’amore, e anteporre l’amore scambievole come quasi un segno dell’appartenere a Cristo: in poche parole, spiegherò anche per quale motivo.
Non è forse vero che, se uno esercita il mestiere di metallurgico o di tessitore, si bada soprattutto, e si domanda di quale metallurgico o di quale tessitore uno è discepolo? E che dire di un bravo fabbro? Non è forse vero che egli affermi di conoscere bene l’arte, perché è discepolo d’un bravo fabbro?
Allo stesso modo, credo, coloro i quali hanno in se stessi la forza piena dell’amore, facilmente si faranno conoscere di essere discepoli dell’amore, cioè di Cristo che ha in sé il sommo amore. “Così, infatti, ha amato il mondo da offrire la sua stessa vita per lui” (1Gv 3,16), e da soffrire la crudeltà del furore giudaico. E lo testimonierà egli stesso ai suoi discepoli, dicendo: “Nessuno ha maggiore amore di questo: che dia la sua vita per i suoi amici” (Gv 15,15).
Poiché “Dio è amore” (1Gv 4,16), secondo le parole di Giovanni, essendo Figlio dell’amore, cioè di Dio secondo natura, unico e vero, anch’egli è manifestamente amore, non perché abbia una splendidissima dignità per la spavalderia delle parole, ma perché si dimostra tale con le opere e i fatti, cioè come frutto della sostanza del Padre.
Non diremo, infatti, che la sostanza suprema accolga tutti i bene, né affermeremo che ogni genere di bene sia in lui in modo precario e avventizio, come avviene in noi, e neppure diremo che sia una cosa contenuta nell’altro, come si potrebbe dire che la scienza è nell’uomo. L’uomo, infatti, non è scienza per se stesso, ma piuttosto capace di ricevere la scienza. Ma anche qualsiasi bene che si possa concepire, diciamo che questo realmente è la divina e ineffabile natura, come quasi una fonte che ha in se stessa ogni genere di virtù, e che lo riversa da se stessa.
Meritatamente, dunque, egli è il frutto dell’amore, ed essendo egli amore, come il Padre, di cui è Figlio, si contrassegnerà nei nostri animi per mezzo dell’amore, e imprime nei buoni, come segno della familiarità con lui, l’abbracciare strettamente l’amore scambievole.
D’altronde, se Cristo, secondo le parole di Paolo, è “la nostra pace” (Ef 2,14-18) […], in che modo potrebbero essere riconosciuti come discepoli della pace, se non hanno fra loro la pace?
Che cosa è, infatti, il disgregamento dell’amore se non la causa della guerra, il sovvertimento della pace e la scoperta di ogni doppiezza?
Come, quando è fermo il vincolo dell’amore, sono conservati i beni della pace, così, credo, subentrano i mali della guerra, quando la carità viene tagliata via. E che succede allora? Insulti, liti, emulazione, ira, furore, insinuazioni, maledizioni e invidia: in una parola, sorge ogni specie di pazzia.
Poiché, dunque, nell’amore è racchiusa e adempiuta ogni virtù, nessuno di noi si vanti di digiunare, o di dormire per terra o di altri faticosi esercizi di pietà, se non bada onestamente all’amore verso il fratello. Si porta fuori della curva della meta come un auriga inesperto, e sbaglia rotta come un timoniere che ha in mano il timone, ma non tiene conto dello scopo stabilito della navigazione, a causa della sua inesperienza.
Cirillo di Alessandria
Commento a Giovanni 13,35
tratto da: Cirillo di Alessandria, Commento al Vangelo di Giovanni, III, Città Nuova, Roma, pp. 51-54