Continuiamo e concludiamo un brano tratto dall’autobiografia spirituale di un grande autore ortodosso contemporaneo: Olivier Clément.
Prendete il colloquio con Nicodemo. Quando Gesù gli dice che bisogna “ri-nascere”, questo sapiente in Israele ne ride: “Come può un uomo entrare una seconda volta nel seno di una sua madre..”? Sapienza d’Israele, in effetti, brusca rivelazione biblica dell’esistenza individuale, unica e breve, e di una storia lineare, orientata, contro la nostalgia del rinnovamento delle religioni arcaiche e la loro concezione ciclica del tempo. Nell’orgia rituale, l’uomo regredisce allo stato di germe nel ventre della terra-madre, con la speranza di rinnovarsi. Certe tecniche di longevità, nell’antica Cina, consistevano nel prendere la posizione del feto, nel vivere in circuito chiuso rallentando all’estremo la respirazione. Anche oggi siamo ossessionati dall’incesto. La proibizione dell’incesto, di far l’amore con il padre o col la madre, ci mette alle strette duramente davanti alla realtà dell’altro, della storia, della morte. Vorremmo ritornare nel seno materno, se non per rinascere, almeno per dimenticare. Saggezza di Nicodemo (e di Sigmund Freud, quest’altro dottore in Israele, malgrado le sue sciocchezze su Mosè): la madre è perduta per sempre, bisogna morire. Allora Gesù ripete la sua affermazione, ma con una precisione capitale: bisogna rinascere dall’acqua e dallo Spirito. Così il simbolo immemorabile dell’acqua – l’acqua come tomba e come matrice – diventa, nello Spirito, il contenuto vitale dell’incontro personale con Gesù. Pentecoste nel cuore del mito, nel seno della terra, e che raggiunge, ma nella luce di un Volto, la Pentecoste cosmica delle origini, quando lo Spirito soffiava sulle acque. Quando il Vento faceva vibrare la materia primordiale, come oggi ancora la sabbia delle spiagge o quella di un giardino zen!
Questa umanità di Gesù sembra non essere separata da nulla, da nessuno. Non per fusione: il Cristo non è un misto; le distinzioni della Genesi (Creatore-creatura) persistono nei Vangeli. Ma tutto è riunito, senza confusione, in una persona. Gesù non è separata da nulla, perché accoglie e risveglia, perché fa un uso eucaristico dell’universo. Perché la sua umanità non è chiusa su se stessa dalla morte, senza neanche essere consumata come quella dei “liberati vivi” indù che i testi paragonano a dei fogli di carta che sono appena nati bruciati e sui quali la scrittura resta visibile finché un soffio non dissipa tutto in cenere. Si rivela una relazione tra l’uomo e Dio che non è nè separazione nè fusione, ma spartizione d’amore che permette l’irradiazione del divino e la trasfigurazione dell’uomo. Sì, Dio si rivela differente, e tanto più sconosciuto in quanto è conosciuto. L’abisso, certo, e il tutt’altro. Ma dall’abisso viene un amore libero, per lo scambio delle vite. E l’abisso è differenza nell’identità: “In principio era il Verbo e il Verbo era (teso) verso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1); l’identità, ma nella tensione. Da questo la possibilità paradossale per quel Dio altro da Dio, il Figlio di Dio, di uscire dalla sua trascendenza senza abolirla nè volatilizzarla per l’universo: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo” (Gv 16,28); la possibilità paradossale di scendere nella sua propria assenza, di “vuotarsi”, di “devastarsi”, come dice Paolo. Per diventare Giobbe, e la mano che schiudeva la bocca di Giobbe è ormai forata. Per pendere sulla croce, nell’inferno dell’abbandono, Dio separato da Dio, la parte dell’uomo. Dio dell’uomo nudo sepolto nell’angoscia nuda. Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? Adamo, dove sei? Mio Dio, dove sei? Notte in pieno giorno. Notte in pieno Dio. Allora: Io e il Padre siamo uno. Il Cristo è risorto. Tutto in lui è risorto. Lui e tutto. Lui in tutto. Tutto in lui. I figli di Rachele sono risorti, e Lazzaro balza definitivamente dalla tomba, e l’odore del pesce arrostito in riva al lago, e i capelli così lunghi della cortigiana, e quell’istante in cui li fa accomodare sull’erba per dividere i cinque pani e quell’altro in cui Pietro fu perdonato, e ogni secondo della tua miserabile vita in cui le tue vene sono state piene di esistenza: tutto è risorto. Tutto comincia, si può tentare di amare, perché non c’è più morte, poiché la morte stessa è piena di Dio. Ma dove tutto questo, ma dove? “Nel vento che si alza”. Gesù è risorto, si alza il vento. Ormai “soffia dove vuole, il suo rumore lo senti, ma non sai nè da dove viene nè dove va. Così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,8).
Lo Spirito non è più anonimo. Ha ormai il volto di Gesù ed è il volto dei volti, e lo Spirito ha tutti i volti. L’uomo nato dallo Spirito non è più soltanto questa carne già putrescente, di cui non si sa che troppo da dove venga e dove vada. L’uomo nato dallo Spirito ne è penetrato fin nella materia del suo corpo assimilato al corpo di gloria del Risorto. “Chi crede in me, dei fiumi d’acqua viva sgorgheranno dalle sue viscere” (Gv 7,38) . L’uomo nato dallo Spirito non ha più inizio né fine, perché in Cristo viene dal Padre e vi ritorna; questo “liberato vivo” non è un saggio sferico, ma un assassino o una prostituta il cui cuore si è rivoltato. Come il vento che lo porta e lo riempie, lo si riconosce a un suono. Il vento fa cantare la foresta e il mare. Quando Elia va sulla montagna all’appuntamento di Dio, Dio non è nel fracasso del temporale e della tempesta, ma in un mormorio del vento “al limite del silenzio” (1Re 19,12). Nell’uomo nato dallo Spirito, Dio canta a bocca chiusa e il mondo è musica. Lo Spirito riposa su Gesù e lo fa trasalire di gioia. Il Silenzio è all’interno della Parola. Lo Spirito è l’unzione del Figlio e il regno del Padre. Lo Spirito rivela la faccia nascosta della terra. Lo Spirito è la Terra dei viventi. […]
Quello che mi colpiva, nei Vangeli, è che i miracoli sono poco numerosi e sempre significativi, dei “segni”, dice Giovanni. Così come Gesù sceglie tra le cose sensibili il linguaggio delle sue parabole, così sceglie tra i possibili formicolanti dell’invisibile i segni della grande mutazione, della grande esplosione di vita che è venuto a realizzare. Mi dicevo: Gesù è trasparente a quelle distese di pace e di luce di cui non conosciamo che delle furtive scintille, poiché in fondo a lui non si trova la morte, ma il Soffio. Che cosa di stupefacente, dunque, che la pace e la luce si irraggino da lui, trasformando gli uomini e le cose? Solamente è l’irradiazione di una persona, e solo la fede personale può accoglierlo: “La tua fede ti ha guarito”. Anche nell’ordine del miracolo Gesù ha rifiutato di sostituire la comunione con il possesso. Non ha cambiato le pietre in pane (glielo rimproverano abbastanza, oggi!), non è sceso dalla croce, non si è mostrato rianimato e sfolgorante alle autorità ebree e romane. Così nasce il vero miracolo, quello della nostra libertà.. Ugualmente, la risurrezione del Cristo non mi sembrava niente altro che la verità della vita, una vita così possente che trionfa di ogni morte. Solo, tutto è capovolto, a cominciare dal nostro sguardo sul mondo. Abbiamo talmente preso l’abitudine di esistere all’interno della morte che la manifestazione plenaria della vita ci sembra incredibile. I soli miracoli ai quali vogliamo credere sono quelli della morte! “Comunque, la risurrezione del Cristo, non ti mette in imbarazzo?” mi domandava in quei tempi di difficile ricerca, un amico scrittore. “Perché? Tutto simbolizza la risurrezione. È come se imparassi a leggere”. Il poveretto ne ha concluso che, per me, la risurrezione non era che un simbolo. L’ha anche messo in un libro. Con gli scrittori, bisogna stare sempre in guardia! […]
Quello che mi metteva in imbarazzo, bisogna bene arrivarci, o piuttosto tornarci, era l’esclusivismo di Gesù, poiché non volevo falsificare quello che dice di se stesso, come lo fanno gli gnostici grandi e piccoli, quelli che lo vogliono rendere più “comprensibile”, che si prendono ognuno, o tutti insieme, per Cristo: non in lui, ma al suo posto.. Quello che mi metteva in imbarazzo, era la pretesa di Gesù di essere l’unico mediatore. Non uno di coloro che mostrano la via, rivelano la verità e la vita, ma di essere lui stesso la via, la verità, la vita. Mi metteva in imbarazzo anche quell’inclassificabile sorgere dello Sconosciuto divino che tentavo di dire prima. Quest’unità che Gesù affermava con il Padre, suo Padre, non l’identità suprema con l’Io, ma un’unità nella differenza, e particolare, e privilegiata, alla quale ci associa perché lo vuole, per libero amore: “Il Padre mio e il Padre vostro” “Che tutti siano uno, come noi siamo uno”. L’unità trascendente delle religioni non andava! O Gesù era, e lui solo, l’unità trascendente delle religioni, e il Cristianesimo la “religione delle religioni” e nello stesso tempo tutt’altro, o Gesù era pazzo, e bisognava farla finita con lui.