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L’azione spirituale
Tutto il cammino cristiano poggia su un fondamento che deve essere chiaro alle menti sia dei neofiti che di coloro che intendono percorrerlo fino alla fine. È impossibile, infatti, prescindere dalla presenza di un amore sincero e ardente per Dio, una fede che fa affidamento a Dio solamente, un abbandonarsi serenamente alla volontà di Dio e una disposizione continua a rinnegare se stessi. In realtà, ciò rappresenta la sintesi dei comandamenti del Signore. È il Vangelo stesso che si fa regola di vita.
Per intraprendere questo cammino, non è necessario che si verifichi la compresenza di queste quattro condizioni nella loro pienezza. Tuttavia, in una qualche maniera, esse devono essere presenti nell’anima e devono essere oggetto di un anelito da parte della persona. Tale quadruplice fondamento, però, non basta di per se stesso a edificare l’anima e a garantirle un cammino scevro da pericoli. Allo stesso modo, non garantisce l’arrivo a destinazione, cioè il raggiungimento del Regno e l’unione con Dio.
Su questo fondamento bisogna costruire l’azione, un’azione che ne sia specchio e prolungamento; un’azione che si realizza nell’uomo per mezzo di Dio, un’azione che si compie attraverso le avversità, le prove e le più svariate tribolazioni che attanagliano l’uomo, sia dentro che fuori; un’azione che si pone in essere attraverso una pratica continua della metanoia, lungo tutto il corso del cammino, la sottomissione a Dio dell’ego e l’abbandono della propria volontà.
Tale azione mette alla prova la solidità e la resistenza del fondamento che, per mezzo di essa, si solidifica, si espande e cresce. Come possiamo dimenticare la maniera con la quale Cristo ha espresso l’amore che era in lui accettando la passione e come «imparò l’obbedienza da ciò che patì» (Eb 5,8)? come obbedì fino alla morte (Fi 2,8)? come fece esperienza del suo consegnarsi totalmente sulla croce nel più amaro abbandono: «Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?» (Mt 27:46)? come praticò il rinnegamento di se stesso nel tormento volontario del Getsemani: «Non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lu 22:42)? per dire al culmine: «È compiuto» (Gv 19:30).
Appare chiaramente dalla vita terrena di Cristo che egli non mirava a sedere alla destra della Potenza ma a compiere la volontà del Padre. Perciò, mentre siamo in cammino, non dovremmo porci come obiettivo l’ottenimento dei carismi e dei doni di Dio. Fossero anche semplici carismi, essi non devono essere oggetto di richieste insistenti da parte nostra nella preghiera. Ci basti adempiere con determinazione la volontà di Dio e di agire secondo la sua volontà in piena sottomissione e rendimento di grazie per ogni situazione nella quale egli ci pone e per ogni cosa che egli sceglie per noi, fiduciosi che, qualunque cosa ci accada, ha cura di noi. Tutto ciò di cui la nostra azione ha bisogno è desiderare ardentemente la perfezione cristiana – questo è gradito a Dio – ma nella maniera che piace a lui e che lui ci indica.
La perfezione non è però qualcosa da sperare in un imperscrutabile futuro bensì è ciò di cui l’anima ha bisogno hic et nunc, perché è ora che noi possediamo noi stessi e possiamo donarci a Dio. Del domani, invece, che è esclusivamente nelle mani di Dio, noi non possediamo nulla da poter donare a lui. Colui che crede di poter donare il suo futuro a Dio è simile a chi pensa di poter pagare con un capitale immaginario. Del futuro non conosciamo alcuna cosa. Non rientra nelle nostre possibilità e non possiamo disporne spiritualmente. Tutto ciò che possediamo dell’esistenza è l’attimo che viviamo ora.
È adesso che possiamo conoscere ciò che è dentro di noi e farci un’idea chiara dei nostri difetti e delle potenzialità inespresse. Allo stesso modo, solo ora siamo capaci di intravedere, alla luce di ciò che è in noi, qual è la volontà di Dio rispetto a ciò che dobbiamo fare. È adesso che la perfezione cristiana ci è chiara alla luce della realtà da noi percepita perché essa esiste in noi e possiamo vederla, se vogliamo, la vediamo chiaramente così come vediamo il cielo sopra di noi e sotto di noi la terra. Ma se ci voltiamo alle spalle per guardare il passato, ci renderemo conto che è ormai lontano e irraggiungibile, come un vento che soffia su di noi e poi ci abbandona senza essere in grado né di ricorrerlo né di sapere dove è andato. Quando andiamo al passato con l’immaginazione, vediamo i nostri insuccessi e le nostre mancanze. Allorché proviamo a guardare al futuro, invece, ci cacciamo nell’ambito della predizione e ci immergiamo in pensieri nebulosi e oscuri che ostacolano la nostra visione e che non ci permettono di discernere l’immagine della perfezione che Dio auspica per noi.
Così, per operare in modo lucido dobbiamo soltanto sperare nella realtà che ci si presenta davanti. Se, infatti, perdessimo di vista ciò che è in noi ora e tralasciassimo di fare quanto è opportuno, la vita intera ci sfuggirebbe di mano.
Tuttavia, non importa quanto amore, fede, negazione di sé e abbandono della propria volontà racchiudano, le nostre azioni non ci fanno giungere di per se stesse alla santità e non ci rendono degni di ricevere i carismi. Non sono nemmeno in grado nemmeno di donarci serenità e pace.
Chi è che allora dona tutte queste cose? Dio. Dio che senza posa guida l’anima docile per vie impervie, prove, di oscurità in oscurità, attraverso l’inquietudine, in azioni che, apparentemente, sono senza scopo. Attraverso questo scontrarsi con la realtà, l’accettazione di esperienze dolorose, il suo attraversare il dramma del mondo e l’inimicizia dei malvagi, Dio prepara l’anima a ricevere carismi inattesi e stature spirituali impensate.
I carismi di Dio non li otteniamo dalle mani degli angeli né sono esclusiva dei supremi ordini celesti. I carismi di Dio si incontrano nei contrasti quotidiani con il corpo, il mondo e le persone. Tuttavia non sono i contrasti di per se stessi a originare i carismi bensì Dio, per amor del quale ci asteniamo dagli errori del corpo, ci opponiamo all’ingiustizia che è nel mondo e alla malvagità che è nelle persone. I carismi dell’illuminazione spirituale sgorgano solamente dall’oscurità delle tenebre che l’anima attraversa, confusa e attonita per le esperienze che fa del reale nel quale la verità è celata.
La fonte nascosta della vera gioia e della perseveranza sono il dolore e l’afflizione che, all’inizio, ripugnano all’uomo. Eppure, con pazienza, presto egli scopre che si tratta di mentite spoglie sotto le quali si nasconde una verità immutabile ed eterna che sprigiona nell’anima una verace felicità divina. L’uomo non gusterà l’amore divino, copioso e sorridente, se non dopo essere stato pestato nel torchio dell’ostilità, dell’odio e della perfidia delle persone.
Eppure le tenebre non generano di per se stesse luce, la tristezza non genera la gioia e l’odio non produce l’amore. Ma così come il fango non dà vita ad una pianta da sé, a meno che non vi si interri con estrema accuratezza un seme, allo stesso modo non tutti i semi piantati nel fango generano una pianta ma soltanto coloro nei quali c’è vita.
Così similmente, l’anima deve essere viva e in uno stato di abbandono totale a Dio così che la mano del Misericordioso possa piantarla, con estrema accuratezza e nel punto giusto, nel fango delle prove. Allora l’anima, traendo vantaggio dalle tenebre, dalla tristezza e dalla tribolazione, sarà pervasa dal brivido della vita eterna e prenderanno forma in essa gli attributi dell’eternità: amore, gioia, pace, pazienza… (Gal 5,22)
Così, alla persona in cammino è richiesto che sia in uno stato di vigilanza permanente rispetto alla realtà nella quale vive, con gli occhi rivolti alla verità presente nel profondo di se stessa che necessita di azione e sforzo. Deve, inoltre, essere ben disposta ad affrontare tutte le situazioni avverse e tutti gli scontri, in modo positivo, senza scappare dal pericolo, traendo giovamento da tutto ciò che accade, sentendo Dio con sé in ogni situazione, affidandogli totalmente la propria volontà senza preoccupazioni e senza turbamenti, non importa quanto pesante e quanto a lungo duri la prova, senza sentirsi confusa e senza interrogarsi, senza voler conoscere impazientemente le cause e senza avventarsi nell’indagare sui risultati.
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La vigilanza e l’inizio dell’azione spirituale
L’anima è talmente coinvolta nelle cose sensibili, nelle azioni e negli interessi che riguardano gli eventi temporali della vita quotidiana, che perde la propria capacità di distinguersi dal corpo e non riesce a percepirsi se non congiunta alle sensazioni corporee. Per quanti tentatavi compia di immaginarsi separata dal corpo, l’anima riesce a giungere soltanto ad un certo grado di autovisione per mezzo delle raffigurazioni e dei movimenti della mente la quale non è scevra da un’impronta corporea e dall’elemento sensibile. Ciò fa illudere l’anima che il mondo dell’uomo si limiti soltanto a ciò che può essere percepito. Diviene dunque difficile per l’anima riuscire a concepire le cose eterne a prescindere dal temporale e dal corporeo quasi come se il regno dei cieli fosse raggiungibile nello stesso modo in cui mangiamo o beviamo, seguendo precetti quali “non toccare e non gustare”.
Se la persona smettesse di pregare, essa diventerebbe incapace di comprendere concretamente le realtà spirituali. Di conseguenza, le risulterebbe difficile compiere l’azione spirituale nel suo significato spirituale. Prima della pratica stessa della preghiera e del tentativo di accedere al campo puramente spirituale, una tale persona avrebbe bisogno di imparare l’hesichia, di smettere di interessarsi a ciò che è sensibile e di adoperarsi seriamente per sbarazzarsi del dominio del corpo e dei sensi. Ciò non comporta assolutamente l’interruzione delle azioni e degli obblighi del corpo o il trascurare le esigenze della vita. Al contrario, richiede che l’anima si renda indipendente, nelle potenzialità, nei pensieri, nei sentimenti, nelle esigenze divine, rispetto al corpo, ai suoi pensieri, alle sue sensazioni e alle sue esigenze temporali. L’anima inizia a prendere conoscenza del suo campo di competenza, dei suoi carismi e lo scopo per cui è stata creata e a realizzare le sue potenzialità senza intralciare nulla di quanto compete al corpo. Così, l’anima inizia a predisporsi all’azione spirituale.
Tuttavia, l’anima non è in grado di dare inizio all’azione spirituale senza aver acquisito l’occhio spirituale, l’orecchio spirituale e la lingua spirituale e senza essersi illuminata alla luce della conoscenza generata dalla verità, come dice il Signore.
Questa conoscenza non si acquisisce attraverso la ricerca, la lettura, l’apprendimento, l’argomentazione o la discussione come succede per l’uso della ragione, o lo sviluppo delle capacità fisiche e tecniche che dipendono dai sensi. All’opposto, per imparare le cose spirituali, per prepararsi alla comprensione dell’eternità e intraprendere l’azione spirituale, l’anima deve spogliarsi di tutti gli strumenti sensibili acquisiti dal corpo di modo che abbandoni l’uso dell’abilità intellettuale e della finezza immaginativa e non si basi sulle capacità espressive, sull’eloquenza, sulla retorica e sull’influenza, tutte cose che il vangelo chiama, con una sola espressione: «la sapienza… di questo mondo» (cfr. 1Co 2,6). Affinché possa intraprendere l’azione spirituale, l’anima deve comprendere le cose spirituali e percepirle secondo le potenzialità che le sono proprie. E le potenzialità dell’anima sono spirituali! La comprensione spirituale e l’azione spirituale, invece, – rappresentate dalla croce – sono stoltezza per il mondo (cfr. 1Co 1,18). Ciò è quanto le Scritture esprimono chiaramente: «Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente» (1Co 3:18). Vuol dire che bisogna abbandonare ogni sapienza di questo mondo che è, nel suo contenuto, temporale, sensibile e legata al corpo.
Fino a che l’anima non intraprende l’azione spirituale e comincia a gustarla, essa utilizzerà, nel pregare e conversare con Dio, il linguaggio corrente degli uomini e le espressioni che essi usano nella conversazione per esprimere i propri sentimenti, abbellendo le parole e adducendo scuse.
Eppure, nell’istante in cui l’anima riesce a rinunciare a questi strumenti, essa inizia a comunicare con Dio con i suoi propri strumenti senza parole e con un linguaggio diverso da quello di tutti i giorni, senza gli artifici dei sentimenti e delle espressioni. Poco a poco, l’anima comincia ad esprimere a Dio i suoi sentimenti più profondi e i suoi pensieri più densi verso di Lui e verso l’eternità che la lingua degli uomini, non importa quanto precisa, o ricca o saggia, non può né cogliere, né chiarire né esprimere.
Grazie a queste nuove facoltà, l’anima è in grado di offrire il suo amore a Cristo non già con le parole ma con un atto intimo del cuore, con un moto interiore, con un’azione spirituale celata. Vale a dire: spiega l’amore con l’amore, la sottomissione con la sottomissione, l’abbandono con l’abbandono. Tale è l’azione spirituale scevra di ogni intrusione corporea.
Quando l’anima si ridesta e intraprende l’opera spirituale interiore, riesce allora a comprendere le cose spirituali nel senso loro proprio e riesce a cogliere la vita eterna senza immaginazione corporea, senza dipendere dai sensi e senza l’intromissione di strumenti umani: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì,né mai entrarono in cuore di uomo… parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare… a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito» (1Co 2,9,10; 2Co 12,4).
Con una tale conoscenza spirituale incontaminata dal pensiero corporeo e dalle passioni dei sensi che turbano l’anima, l’anima inizia a cogliere la verità, come se essa stessa fosse parte di essa, e, a partire dalla verità, comprende Dio. Non è né attraverso uno sforzo fisico e nemmeno, se fosse possibile, attraverso la morte dei sensi che l’anima rimane nella verità e in Dio. È, invece, grazie a una sottomissione continua a Dio e a un cuore sempre pronto all’azione spirituale la quale predispone l’anima a una conoscenza sempre più perfetta. Quanto detto non è rivolto a persone colte ma all’uomo in quanto tale, che sia istruito in ogni scienza, oppure analfabeta. Alla persona colta, però, è chiesto di divenire stolta perché «è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» (1Co 1,21).
L’anima che è giunta alla conoscenza di se stessa o che ha praticato l’azione interiore con un moto sincero del cuore, è necessariamente spinta dall’amore e dal fervore interiore a compiere tutte le attività esteriori come le opere di pietà e quelle delle virtù, con il sostegno dello Spirito. Questa attività esteriore, sebbene appaia come un’azione del corpo, rappresenta in questo caso un prolungamento dell’azione spirituale interiore ed è dunque, essa stessa, un’azione spirituale.
Tale attività esteriore, qualora non derivasse da pure motivazioni spirituali e da una relazione sincera con la verità e con Dio, servirebbe a ben poco, non vogliamo dire proprio a nulla.
A indicare se le opere compiute – siano esse opere di carità, adorazione, pietà, virtù, ascesi o qualsiasi altra azione – emanino genuinamente dall’interno e abbiano un’origine puramente spirituale, è il fatto che esse sono realizzate non su costrizione, su pressione, con fastidio e inquietudine bensì con gioia, con fervore, con generosità. L’amore, infatti, è la fonte da cui derivano le buone motivazioni: «L’uomo buono dal suo buon tesoro trae fuori cose buone» (Mt 12:35)
L’amore è il buon tesoro dell’uomo che ispira all’anima il servizio, la devozione, la virtù, l’ascesi e tutto ciò che è buono là dove preoccupazione e inquietudine delle conseguenze non hanno cittadinanza. L’azione, infatti, viene compiuta secondo la volontà di Dio, spinti dall’amore, per saldare un debito di amore: «A chi lavora, il salario non viene calcolato come dono, ma come debito» (Ro 4,4)
È pericoloso, invece, che la fonte delle nostre opere, del nostro ministero, della nostra devozione e della nostra pratica delle virtù, sia il desiderio o il tentativo di raggiungere qualcosa. Ciò fa sì che l’anima si isoli in queste opere a suo esclusivo beneficio e le giudichi buone e ne gioisca fintantoché da esse trae godimento. Così, più ha successo, più l’anima si compiace di se stessa; più mantiene le promesse che fa a Dio, più si compiace delle sue capacità; più è rigorosa nelle proprie regole, più si crede superiore agli altri. In questo modo, l’ego si ingigantisce e si gonfia perfino attraverso la pratica dell’umiltà.
A questo punto, offro al lettore quella che potremmo definire “una massima di salvataggio”: L’azione deve provenire da Dio ed essere orientata verso Dio o come dicono le Scritture: «Ecco, io vengo a fare la tua volontà, o Dio» (Eb 10,9).
Così ha operato Cristo e così operano gli angeli e le schiere celesti. Così hanno operato i patriarchi, i profeti e gli apostoli lontani, lontanissimi dal soddisfare l’ego e l’interesse personale. Tale è l’azione spirituale.
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Il vero riposo
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, ed io vi darò riposo.
Prendete il mio giogo sopra di voi […] e troverete riposo per le vostre anime (Mt 11,28-29)
Il vero riposo per l’uomo spirituale che percorre la via stretta è evitare che nella sua vita ci sia il vuoto.
Il riposo corporeo è legato alla dimensione temporale: esso è il tentativo di fermare l’orologio e di tuffarsi in qualcosa che è simile al sonno. Un riposo ingannevole, perché il tempo, infatti, non può fermarsi: esso si introduce furtivamente e passa di soppiatto, al di là della coscienza umana, e così le ore, i giorni, i mesi e gli anni scivolano verso il baratro infernale della morte e del non-essere. La coscienza umana destatasi all’improvviso si accorgerà che il tempo è sceso a patti con la morte e con gli inferi contro di lui e che l’opportunità dell’eternità e della vita eterna è divenuta più flebile di quanto non fosse.
Il tempo scorre con imperturbabile equilibrio e secondo una legge inesorabile e crea, all’interno dell’uomo, un ammasso di eventi fisiologici e psicologici che sono espressione di un passato smisurato che diventa sempre più grande ogni giorno e che l’uomo si porta dietro ovunque tanto da influire su ogni sua azione, sul suo umore, sul suo lavoro e su tutti i suoi movimenti. Ciò da cui non si può prescindere è che l’uomo è un ammasso di storia creato dal tempo. Questo ammasso forma, in definitiva, la sua statura umana non solo dal punto di vista della lunghezza fisica ma anche della sua longevità nella quale si collocano la profondità e la ricchezza della personalità, tenuto conto degli eventi e del suo modo di affrontarli.
Tuttavia, all’interno dell’uomo, esiste un’altra dimensione, al di sopra del tempo e separata da esso, che non dipende dal cambiamento fisiologico e non è sottomessa all’influenza psicologica. Esiste quasi separatamente dalla polvere della terra, da ciò che da lei procede o a lei ritorna. Questa dimensione atemporale non segue il movimento perché non appartiene a questo mondo. Perciò, non esiste unità di misura capace di ponderarla. Essa obbedisce direttamente al disegno di Dio: questa è la legge dell’eternità e della vita eterna.
Quando l’uomo cammina secondo la dimensione temporale, percepisce il passar del tempo, aderisce alla terra, al cielo e a ciò che vi è in essi. Obbedisce, così, alla legge del moto e del cambiamento che finisce, inesorabilmente, con il nulla. Così, quando egli segue la legge dell’eternità, percepisce l’infinito, l’esistenza assoluta e la vita eterna. Egli aderisce alla verità e si trasforma in lei. Ciò è espresso in teologia con la «partecipazione della natura divina» (cfr. 2Pt 1,4).
Queste dimensioni, temporale e atemporale, procedono fianco a fianco, all’interno dell’uomo. L’uomo è chiamato a camminare in entrambe: a sottomettere il tempo e a inseguire l’eternità.
Tutte le volte in cui l’uomo cammina svelto in una delle due, l’altra si contrae e appare regredire altrettanto rapidamente.
Aderendo alla terra e alle cose della terra fino a desiderarle, a trarne piacere o a preoccuparsene l’uomo corre veloce nella dimensione temporale e si sottomette, necessariamente, alla legge dell’usura e del nulla che obbedisce al tempo.
Aderendo alla verità – e la verità è Dio -, preoccupandosi dell’amore e della vita eterna fino a dare se stesso, l’uomo corre svelto nella dimensione atemporale. Ciò significa, di conseguenza, che egli segue la legge dell’eternità governata da Dio.
Così colui il quale si rinchiude e cammina soltanto nella dimensione temporale è destinato a un vuoto interiore, perché la vita eterna sfugge dal suo profondo o si congela quasi come fosse un nemico che abita dentro di lui.
Colui che, invece, si muove nella dimensione divina sente il tempo scorrere via dal suo essere e sparire alle sue spalle. Egli è simile a un uomo che viaggia in un treno e che vede gli alberi fuggire spaventati e rimpicciolirsi a tal punto da dissolversi mentre egli resta fermo al suo posto, contento della velocità con cui le cose si dissolvono. Il mondo intero e le cose che esso contiene si ripiegano su loro stesse, si rimpiccioliscono fino a scomparire alle spalle di colui che percorre la via della vita eterna.
L’uomo lontano da Dio si confronterà o con la sensazione che il tempo si sia fermato o con un’insensibilità al passar del tempo. Ciò è dovuto al fatto che egli vi è immerso totalmente. La sensazione che il tempo si fermi è micidiale per l’anima la quale è stata creata per oltrepassare e muoversi al di là del tempo. Allo stesso modo, l’uomo che si lega al mondo sente in sé la grandezza e l’importanza del mondo e la grandiosità delle cose che gli appartengono. L’uomo, infatti, è di per sé una creatura grandiosa. Di conseguenza tutto ciò a cui si lega l’uomo diventa, nella sua percezione, grandioso. Ciò è certamente un’illusione. Questo era il segreto della divinizzazione dell’universo e della materia da parte dei naturalisti e dei comunisti.
L’uomo invece che resta incollato alla verità, procede verso l’eternità con una percezione sovratemporale e vede i giorni e gli anni rimpicciolirsi e perdere di valore a mano a mano che cresce la velocità con cui trascorrono. Essi creano in lui una sensazione di accettazione perché tale rapidità inversa gli fa percepire più chiaramente la sua estensione e il suo avvicinarsi alla meta dell’eternità.
Allo stesso modo, per l’uomo che vive in Dio il mondo esiste separatamente dal suo intimo. Le cose e gli eventi del mondo gli appaiono nella loro verità: futili realtà, come i giochi e i capricci dei bambini.
Esiste un riposo genuino e uno menzognero
Immobilizzare la dimensione temporale, fermandosi o sospendendo un’azione per un dato lasso di tempo o per sempre restando da soli in silenzio, non crea un riposo genuino perché ci fa sprofondare nel terrificante vuoto temporale. Infatti, anche smettendo di agire, temporaneamente o permanentemente, non possiamo disfarci del moto proprio del tempo tanto che è come se ci muovessimo stando fermi. Così diveniamo sempre più angustiati dal tempo il quale si trasforma in una forza che ci opprime da ogni lato.
L’unico modo per disfarci del tempo è entrare dentro noi stessi e restare incollati alla verità e alla vita eterna, cioè tenerci saldamente legati alla dimensione atemporale e credere nell’eternità.
Non esiste vero riposo nella sospensione dell’azione fisica perché la natura, essendo essa stessa schiava del tempo, è disposta a vendicarsi di ogni essere vivente che osi smettere di servirla. A meno che questa interruzione abbia come obiettivo il recupero delle forze per riprendere il servizio e il lavoro in modo più efficace e attivo.
Il tempo è sempre contro l’inazione.
Mentre la natura, di per se stessa, vieta il riposo.
Il vero riposo, dunque, implica non la cessazione del lavoro ma la soluzione al problema del tempo e l’uscita da questo stallo. Implica l’elevarsi al di sopra del corso della natura e della sua inesorabilità. Così, all’uomo che percorre la dimensione atemporale, riposo e quiete diventano perfettamente chiare. Esse esistono in rapporto a Dio e nella vita eterna: il vero riposo non consiste nella cessazione del lavoro a ogni costo ma nel mantenimento di un distacco rispetto a esso; la vera quiete non consiste nel fermare l’orologio nella propria coscienza ma nell’elevarsi al di sopra del tempo.
Tutti gli uomini, ivi compresi gli uomini spirituali, sono sempre in cerca di riposo. Questa tendenza forte verso il riposo è dovuta alla pesantezza del giogo del mondo (il tempo) e alla debolezza della carne (il movimento). È per questo che l’uomo è obbligato a cercare questo riposo con la via più breve: fuggendo dal tempo e dal movimento.
Cristo – che il suo nome sia benedetto – era cosciente di questo sentimento nell’uomo. È per questo che l’ha invitato al vero riposo offrendogli il suo proprio giogo, affermando che il suo giogo è dolce e il suo carico leggero (Mt 11,28). Questo carico leggero non si basa sull’interruzione dello sforzo fisico o sul rifugiarsi in una quiete apparente, ma sul passaggio alla vita eterna, elevandosi al di sopra del tempo.
Camminare verso la vita eterna non nega il tempo e non fa mai a meno del movimento ma li usa entrambi come gradini di una scala per salire in alto. Dunque, in ogni caso, non potremo mai fare a meno dello sforzo e del movimento!
Ma la promessa di riposo che il Signore ci ha fatto «troverete riposo per le vostre anime» (Mt 11,29) ha in sé un contenuto mistico e meraviglioso che si trova racchiuso nella parola “giogo”. Il giogo, l’attacco delle bestie da soma, simboleggia che il Signore ci accompagna lungo tutto il cammino. Il giogo, infatti, non può essere portato da un solo animale ma bisogna attaccarlo a due colli. Inoltre, i contadini che usano l’aratro sanno che se vengono messe insieme una mucca forte e una debole, tutto il peso dell’aratro viene assunto da quella più forte.
Che mistero benedetto! Solo nella compagnia del Signore abbiamo vero riposo. Ma resta sempre un invito da parte sua, non un’audacia da parte nostra. E allora anche il piccolo sforzo che ci resta da fare lo compie lui per noi.
Guardate quanto è buono il Signore! (Sal 34,8).
Matta El Meskin
(opera originale: al-‘Amal al-Ruhi, 1975)
Non smetto mai,nell’accostarmi alla figura di Matta El Meskin,di rendere grazie al Signore per lui.
Sempre i suoi scritti sono efficaci,perché sono pregnanti della parola di Dio.
E dell’azione dello Spirito che lo ha sempre guidato .
Ringrazio anche voi perché mi date la possibilità di leggere questi testi.
Grazie a te Pia, ti promettiamo che continueremo a pubblicare testi di Matta el Meskin, anche inediti.