In occasione del secondo anniversario del martirio di anba Epiphanius, vescovo e abate del Monastero di San Macario il Grande, che lasciava questo mondo transeunte attorno alle 3 dell’alba del 29 luglio 2018, proponiamo un brano tratto dall’ultimo libro uscito in italiano “L’arte dell’essere monaco”, per i tipi di San Macario Edizioni, supplicando il Signore che il suo sacrificio non sia invano e che il suo sangue innocente sia seme di rinnovamento e di conversione.
Vorremmo evocare un’immagine che può aiutarci a farci strada nel cuore di anba Epiphanius. Nel Monastero di San Macario sono conservate molte reliquie. Le reliquie dei tre Macari[1], poste in tre cilindri lignei, rivestono una grande importanza, e in particolare quelle di San Macario il Grande, fondatore del monachesimo di Scete. Tra le altre reliquie importanti vi sono quelle di San Giovanni Battista, Precursore del Signore, quelle di Sant’Eliseo profeta, discepolo di Elia, e quelle di San Giovanni Kolobós[2]. Ora, anba Epiphanius sembra aver ottenuto da Dio un po’ dello spirito di questi quattro santi. A un prete australiano che gli chiese nel luglio 2018 che cosa fosse cambiato in lui dopo l’abbaziato, anba Epiphanius disse esplicitamente:
Il Signore mi ha dato lo spirito di San Macario: vedo le persone peccare ed è come se non le vedessi.
Quest’espressione riprende un famoso detto di San Macario:
Dicevano del padre Macario il Grande che diventò, come sta scritto, un dio sulla terra (cf. Sal 81,6). Infatti, come Dio copre il mondo con la sua protezione, così il padre Macario copriva le debolezze che vedeva come se non le vedesse e quelle che udiva come se non le udisse[3].
Dunque l’abate di San Macario era conscio di aver ricevuto lo spirito del grande santo del deserto. A giudicare dalle sue parole e dalla sua vita, questa certezza che lo sosteneva nell’opera quotidiana di abate appare evidente. In questo, assomiglia a Sant’Eliseo, il discepolo amato di Elia, che ha chiesto al suo maestro, prima che fosse rapito in cielo sul carro di fuoco, di poter avere una doppia parte del suo spirito (cf. 2Re 2,9). Anba Epiphanius, questo moderno Eliseo, ha chiesto e ha ottenuto lo spirito di San Macario. Inoltre, la vita di anba Epiphanius, in particolare gli ultimi anni in cui è diventato un personaggio pubblico, ci ha dimostrato quanto egli possedesse, perlomeno in parte, lo spirito di Giovanni Battista. Anba Epiphanius non aveva la severità del Battista (sebbene avesse certamente il suo spirito ascetico), non immaginava un Cristo che tiene in mano la pala per ripulire l’aia dai malvagi e che brucia la paglia con un fuoco inestinguibile (cf. Mt 3,12). Tuttavia, anba Epiphanius, come Giovanni, non ha mai cercato di prendere il posto di Cristo: “Egli confessò e non negò. Confessò: ‘Io non sono il Cristo’” (Gv 1,20). E, nel fare questo, ha sempre indicato la fonte di ogni bene, il Cristo, nel quale abbiamo una salvezza così grande: “Fissando lo sguardo su Gesù che passava disse: ‘Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!’” (cf. Gv 1,36.29). Anba Epiphanius è stato la voce mite di uno che grida “dal” deserto, sperando, fino all’ultimo, nella trasformazione dei malvagi (cf. Gv 1,23). È stato l’esempio vivente di che cosa significhi: “Lui deve crescere; io, invece, diminuire” (Gv 3,30). Infine, non è necessario ora dire molto su Giovanni Kolobós, perché se ne parlerà abbondantemente nelle prossime pagine. Basti ricordare una sola frase che disse di lui un monaco e che lo collega, senza dubbio, allo spirito con cui ha vissuto anba Epiphanius: “Ma chi è questo padre Giovanni, che con la sua umiltà fa pendere dal suo dito mignolo tutta Scete?”[4].
Dunque, anba Epiphanius si è posto coscientemente sul percorso tracciato da questi quattro santi. Di ognuno di loro ha preso qualche peculiarità ma, a giudicare da quello che ha espresso verbalmente, possiamo dire che si sentisse investito in particolare dello spirito di San Macario, un monaco e un padre di monaci che è stato sempre profondamente trasparente con se stesso; un monaco che ha fatto della semplicità la sua bussola quotidiana; un monaco che si è rifiutato di giudicare gli altri; un monaco che si considerava sempre in cammino e mai giunto a perfezione; un monaco che ha dimostrato come la misericordia fosse espressione di divinizzazione; un monaco che ha vissuto come essere escatologico vivendo nell’attesa della parusia di Cristo e della vita del secolo venturo.
L’abbaziato di anba Epiphanius, dunque, ha guardato costantemente all’opera spirituale di San Macario. Su di essa si era innestata, già in precedenza, l’opera monastica di padre Matta el Meskin che, al Monastero di San Macario, ha realizzato non solo una rifondazione architettonica ma anche una intensa rinascita spirituale, riposizionando il monastero sull’antica scia macariana attraverso un ritorno alle fonti e allo spirito che animava il monachesimo antico di Scete.
Questa figliolanza spirituale di anba Epiphanius nei confronti sia del padre del monachesimo di Scete che del suo rifondatore appare evidente soprattutto se si guarda in controluce la sua paternità spirituale, negli anni del suo abbaziato. Certamente ci sarebbe da dire moltissimo sulle analogie, spesso straordinarie, che legano questi tre monaci scetioti, ma nelle pagine che seguono tracceremo solo alcuni dei più importanti percorsi comuni.
Per molti anni, anba Epiphanius aveva visto concretamente realizzato lo spirito di San Macario attraverso sia gli scritti che la vita quotidiana di padre Matta el Meskin. È interessante che abuna Matta disse qualcosa di molto simile a quanto espresso da anba Epiphanius a proposito dei doni che Dio gli aveva elargito in qualità di superiore del monastero:
Con il mio cuore pacifico e amorevole, con la mia anima mite che non conosce rancore, sopporto costoro [quelli che mi avversano] con pazienza. L’impugnatura della spada è nelle loro mani. Io, invece, non sono capace di essere crudele con nessuno. Il mio peggior nemico lo abbraccio come fosse mio fratello, non importa quello che mi abbia fatto. Questo è un dono che mi ha fatto Dio[5].
– Umiltà
La prima risposta alla domanda “perché l’abate anba Epiphanius ha voluto vivere così?” ci sembra essere: perché si riteneva nel profondo un semplice monaco e ha vissuto come un semplice monaco. Questo è un punto essenziale per poter capire sia la sua figura che la sua spiritualità e la sua paternità spirituale. La sua cella, alla quale ritornava ogni sera, anche quando era costretto per impegni ecclesiali e istituzionali a fare molto tardi, ne è il più eloquente testimone: piccola, austera, essenziale. Era stata in precedenza la cella del suo padre spirituale. Quando la prese in consegna, dopo l’ordinazione a vescovo e abate, gli fu detto che era necessario fare dei lavori di ammodernamento perché era rimasto tutto fermo agli anni Settanta! Si rifiutò categoricamente: “La cella deve rimanere così com’è”, disse. In quella cella ritrovava sempre la sua spoliazione, il suo abbandono del mondo, il fine profondo della sua scelta monastica. E per non perdere il contatto con tutto questo, compiva anche gesti concreti come il dormire a terra su un umile “futon”. “Monaco” era l’unico “titolo”, se così si può chiamare, che accettava con gioia, spesso anche con grande commozione. L’essere monaco gli dava una libertà interiore enorme, libertà che traspariva chiaramente agli altri. È per mantenere questo slancio verso Cristo e verso il prossimo che ripeteva spesso ai suoi interlocutori che lo lodavano:
Non lodare un monaco in faccia altrimenti lo consegni nelle mani del demonio[6].
Questa frase gliel’abbiamo sentita dire, paradossalmente, più quando era vescovo che quando era semplice monaco, a conferma di come si sentisse nel profondo.
Un detto di Macario ci aiuta a capire come anba Epiphanius seguisse, in questo, le orme del padre del monachesimo di Scete:
Se un fratello si avvicinava con timore al padre Macario, come a un santo e grande anziano, non gli parlava nemmeno. Se invece uno dei fratelli gli diceva come per disprezzarlo: “Padre, quando eri cammelliere e rubavi il nitro e lo vendevi, i custodi non ti percuotevano?”, quando qualcuno cominciava così, rispondeva alle sue domande con gioia[7].
Padre Matta commenta questo detto di San Macario con queste parole:
San Macario rifiutava che gli si mettesse l’aureola a causa delle sue opere o della sua ascesi o della sua funzione di superiore. Insisteva, invece, nel comportarsi, prima di tutto con se stesso e poi con i suoi figli spirituali, con le stesse qualità e la stessa spiritualità con cui aveva iniziato la vita monastica. Detto fuori dai denti, a San Macario piaceva, nel profondo, continuare a considerarsi un laico, un cammelliere che ruba il natron, e non sopportava che i suoi figli spirituali lo illudessero o lo lodassero come migliore di un laico qualunque. È come se volesse dirci: “Tutto ciò che c’è di negativo o di debole nella mia vita è mio, di Macario, mentre tutto ciò che c’è di nobile e di eccelso è del Cristo che vive in me. Come posso prendere ciò che appartiene a Cristo e attribuirmelo, o come posso prendere per me l’onore che spetta al Cristo?”. Questo principio con cui viveva Macario tra i suoi figli ci aiuta a capire meglio la sua personalità: era autentico senza falsità, e non amava l’adulazione; viveva la propria realtà nella sua condizione più fragile senza rinnegare il passato né inorgoglirsi per le riuscite del presente; non imponeva ai suoi figli il rispetto per la sua funzione di superiore. Anzi, non accettava che i suoi talenti fossero messi a disposizione della sua relazione con i suoi figli spirituali e i suoi discepoli ma, in silenzio ed estrema delicatezza, imponeva a tutti che il dialogo e la relazione con loro fossero basati sulla sua debolezza e non sulla sua forza… Macario impose al suo interlocutore di evitare ogni cerimoniosità nei suoi confronti per cancellare dall’animo ogni sensazione di paura o di timore reverenziale di modo che Macario potesse vivere, apparire e parlare con quella sua maniera semplice e autentica che egli amava tanto, come un semplice cammelliere in viaggio verso la sua patria celeste[8].
Anche padre Matta el Meskin non amava che gli altri gli dessero un’importanza maggiore di quanto non fosse strettamente necessario. Ai monaci disse una volta:
Dio mi dà, per arricchire gli altri, sei o sette volte tanto delle informazioni che dà a me personalmente. A me nella mia cella dice: “Apri la bocca”, e poi mi imbocca con il contagocce! E io dico: “Signore, dammi qualcosa in più. Qui lavoriamo come dei mulini!”. E lui mi risponde: “No” […] Dio mi ha nascosto al mondo ma ha preso il mio nome e lo usa per la sua opera. In ogni caso, io riesco a vedermi chiaramente, e conosco perfettamente me stesso e quanto valgo. Quando qualcuno mi loda non cambio opinione di me stesso. Anzi, mi vergogno da morire[9].
In particolare, è noto che, nonostante moltissimi chiedessero di incontrarlo per la fama che si è diffusa in Egitto e nel mondo, padre Matta di solito non acconsentiva, dicendo che non era una persona importante. Una volta raccontò in una sua omelia:
Amatissimi, c’è un segreto che voglio rivelarvi. Ho pregato il Signore chiedendogli di poter entrare ed uscire dalla chiesa senza che nessuno mi riconosca. Molte volte è successo che la gente non mi riconoscesse. Tanti mi chiedono: “Vogliamo vedere abuna Matta!”. Addirittura uno, una volta, mi si è avvicinato e mi ha chiesto: “Non posso incontrare abuna Matta?”, e io gli ho risposto: “Assolutamente no. Non acconsentirebbe perché è arrogante! È impossibile farlo uscire dalla cella!”. E così il Signore mi ha nascosto agli occhi della gente. Non dobbiamo interessarci se siamo conosciuti o no in chiesa. Dobbiamo pensare soltanto alla nostra cittadinanza celeste senza desiderare niente sulla terra[10].
Conosciamo tutti quell’altro detto famoso di San Macario:
Un giorno il padre Macario ritornava dalla palude nella sua cella, portando rami di palma. Ed ecco farglisi incontro lungo la strada il diavolo con una falce. Cercò di colpirlo, ma non ci riuscì. Gli disse allora: “Macario, da te emana una tale forza, che io non posso nulla contro di te; eppure faccio tutto ciò che tu fai, tu digiuni, e io non mangio per nulla; tu vegli, e io non dormo affatto, vi è una cosa sola in cui mi vinci”. “Quale?”, gli chiese il padre Macario. “La tua umiltà; per questo non ho alcun potere su di te”[11].
Anba Epiphanius e abuna Matta erano rivestiti, come San Macario, di questa divina umiltà che metteva in scacco il demonio.
– Semplicità e autenticità
Secondo padre Matta, dunque, la semplicità e l’autenticità erano caratteristiche tipiche di Macario che gli permettevano di viaggiare leggero verso la patria celeste. Anche in questo anba Epiphanius visse secondo lo spirito di San Macario. Una volta alcuni fratelli gli chiesero di adottare delle misure severe nei confronti di un altro fratello che aveva commesso molti peccati. Anba Epiphanius si rifiutò preferendo continuare ad aver pazienza. I fratelli furono molto scontenti ma l’abate sapeva di aver seguito le orme di San Macario. Un giorno, dopo il refettorio, un monaco che comprendeva il desiderio profondo di anba Epiphanius di non giudicare i fratelli e la fatica con cui doveva relazionarsi con i fratelli più severi, gli portò su un foglietto un apoftegma di Macario che diceva:
Dal momento che abba Macario agiva verso tutti i fratelli con grande semplicità (en akakía), alcuni gli chiesero: “Perché fai questo?”. Rispose: “Ho servito dodici anni al Signore perché mi desse questo carisma, e voi tutti mi consigliate di rinunciarvi?”[12].
Anba Epiphanius lo lesse. Poi alzò la testa verso il fratello e gli disse sorridendo: “Ma dove trovi tu queste cose?”.
Padre Matta el Meskin commenta questo detto dicendo:
“Semplicità” qui significa umiltà. I fratelli che gli posero la domanda sono di quel tipo a cui piace divinizzare i capi. La grazia di cui parla Macario è la grazia di un’anima umile. A prima vista queste parole ci sembrano di poca importanza, riguardanti un evento di per sé trascurabile. In realtà, San Macario ci svela, qui, volutamente, la dimensione profonda della sua vita nascosta con Dio. Ammette che per dodici anni non ha smesso di pregare e di lottare con Dio e con se stesso per attraversare l’abisso di una finta sobrietà, il baratro del preteso rispetto che spetta all’autorità, il precipizio della effimera gloria umana che la comunità monastica, sedotta, proietta sul superiore. Per questo supplicò Dio con insistenza che la sua vita restasse semplice e umile nelle parole e nei fatti affinché potesse trascorrere tutta la sua vita monastica come un principiante, con la stessa semplicità di spirito e la stessa umiltà, senza far percepire ai suoi monaci (e senza che i monaci gli facessero percepire) che era migliore di altri. Da questo racconto si evidenzia come la scena di Macario che parla con i suoi figli spirituali monaci suscitò il sarcasmo di alcuni monaci avanzati che erano caduti nella trappola del rispetto, della reverenza affettata e della gravità da superiore che chi è avanzato negli anni o di grado impone a chi gli è inferiore. Queste sono cose che una comunità malata può imporre al proprio superiore o a chi presiede. Ma dalla risposta risoluta di Macario è chiarissimo che egli fosse ben conscio della piccolezza con la quale viveva, e che tale piccolezza fosse suscettibile del biasimo e dell’ilarità di queste persone che si ritenevano grandi. Il fatto che abbia detto apertamente che per dodici anni aveva pregato affinché vivesse in questa maniera così piccola e semplice ci conferma che considerava questo comportamento come un modello di vita e lo sfondo sul quale si muoveva costantemente. Egli l’aveva desiderato e Dio gliel’aveva concesso come carisma[13].
Per anba Epiphanius il monaco, e l’abate ancora di più, era chiamato a vivere concretamente nel rapporto con i fratelli secondo il versetto: “Se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso” (Mt 6,22). Anba Epiphanius è stato un uomo che ha vissuto con semplicità. Con una lunga e sofferta esperienza spirituale e umana, egli ha ricevuto da Dio il dono di ricreare, rigenerare continuamente, mediante l’amore, gli altri in vista del Regno dei cieli. La forza di anba Epiphanius risiedeva nella sua profonda umanità. È stato monaco nel vero senso della parola perché non ha perso la sua umanità. Al contrario, la sua umanità si è trasfigurata attraverso il suo essere monaco, la sua preghiera, la sua ascesi, il suo fedele comunicarsi ai santi misteri, il suo amore e il suo servizio nei confronti di tutti. Questa sua umanità divinizzata faceva sì che guardasse a tutte le cose e a tutte le persone attraverso la luce di Dio che permea il tutto con quell’occhio “semplice” di cui parla il Cristo. Ed è in questo modo che vedeva pure tutte le cose: “Tutto è puro per i puri” (Tt 1,15).
– Non giudicare
Da questa semplicità e da questa purezza scaturiva anche la scelta dell’abate anba Epiphanius di non giudicare. Abbiamo già visto, poco fa, un caso concreto che mostra che cosa significasse praticamente per lui non giudicare. Anba Epiphanius spiegò l’importanza del non giudicare in questo modo:
Il giudizio e la condanna nascondono all’interno tanti altri peccati: la gelosia, l’invidia, l’odio, il chiacchiericcio… Condannare significa mancare in amore. E se manca l’amore, manca Cristo[14].
Anche Macario, come tanti altri padri del deserto, ha spesso battuto sul comandamento di Cristo di non giudicare: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati” (Lc 6,37). Abba Pafnuzio, discepolo di San Macario, raccontò una volta del suo padre spirituale:
Ho pregato il padre mio [Macario] così: “Dimmi una parola!”. Ed egli ha detto: “Non far del male a nessuno e non giudicare nessuno: osserva questo e ti salverai”[15].
Il “non giudicare” viene considerato, dunque, da Macario al pari di non causare del male a nessuno. Per Macario il giudicare è legato anche a tre altri fattori. Innanzitutto, come si evince dalla storia con Macario Alessandrino che allontanò due fratelli che peccarono, di solito si giudica pensando di conoscere tutta la verità. Il che, il più delle volte, è illusorio. È per questo che, nel detto in questione, Macario il Grande ribalta la condanna di Macario Alessandrino e allontana lui, in vista, però, di un ravvedimento, “perché [Macario il Grande] lo amava”[16].
L’altro motivo è che il giudicare esprime una dichiarazione più o meno nascosta di santità personale, il ritenersi migliori degli altri. Infine, spesso, mescolato al giudizio, v’è ira o astio verso una data persona. Macario mette in guardia sul fatto che, anche quando un giudizio può apparire giusto, in realtà mette a rischio la salvezza di chi giudica perché può nascondere la soddisfazione di un peccato:
Lo stesso padre Macario ha detto:
Se, rimproverando qualcuno, ti lasci prendere dall’ira, soddisfi una tua passione. Non perdere te stesso per salvare gli altri![17].
– Misericordia: la storia del monaco e dell’orcio
L’abbaziato di anba Epiphanius è stato caratterizzato da una grande misericordia. Ancora una volta anba Epiphanius era pienamente conscio dello spirito che animava San Macario e che animava anche lui. A un fratello che una volta gli chiese di definire in una parola il monachesimo di San Macario rispose: “Monachesimo della misericordia”.
Un famoso detto, attribuito nella collezione copto-araba al-Bustān proprio a Macario, e che vale la pena di riportare per intero, può illustrare lo spirito con il quale Macario viveva la sua qualità di “padre di monaci”:
In una cella c’era un fratello che aveva commesso un fatto terribile. La notizia giunse a padre Macario che non volle riprenderlo. Quando i fratelli vennero a saperlo, spazientiti, si misero a spiare il fratello fino a che la donna entrò da lui. Dissero ad alcuni fratelli di continuare a spiarlo ed essi andarono a dirlo a padre Macario. Dopo avergli riferito il fatto, San Macario disse: “Fratelli, non credete a questa storia. Questo nostro fratello non può fare una cosa simile!”. Al che essi risposero: “Abba, vieni tu stesso a vedere con i tuoi occhi, così crederai a quanto ti abbiamo detto”. Il santo si alzò e si diresse con loro verso la cella del fratello come se stesse andando a salutarlo, e comandò ai fratelli di allontanarsi un po’ da lui. Non appena il fratello si rese conto che l’abba [Macario] stava arrivando, si turbò e, tremando, prese la donna e la nascose dentro un grande orcio che era da lui. Quando l’abba entrò, si sedette sull’orcio e comandò ai fratelli di entrare. Entrati, ispezionarono la cella ma non trovarono nessuno. Non potendo far alzare il santo dall’orcio, parlarono con il fratello e poi [Macario] comandò loro di andar via. Una volta usciti, il santo prese per mano il fratello e gli disse: “Fratello mio, giudica te stesso prima che siano gli altri a giudicarti, perché il giudizio appartiene a Dio”. Poi si congedò da lui e lo lasciò. Mentre usciva, gli venne una voce che disse: “Beato te Macario lo Spirituale che ti sei fatto simile al tuo Creatore perché copri, come lui, i difetti degli altri”. In seguito, il fratello, tornato in se stesso, divenne un monaco sapiente e lottatore, un coraggioso eroe[18].
Padre Matta el Meskin commenta questo brano:
In questo brano ci troviamo davanti all’incredibile e ineguagliabile bellezza spirituale di San Macario. È come se fossimo, ancora una volta, alla presenza di Cristo stesso e della donna peccatrice, testimoni di quelle parole piene di straordinaria dolcezza divina che furono pronunciate dalla bocca di Cristo: “Neanche io ti condanno. Va’ e non peccare più” (Gv 8,11). San Macario, qui, fratelli, ha raggiunto l’apice del Vangelo. Si è rivestito dell’immagine di Cristo, anzi di Cristo stesso, e ha replicato davanti a noi, in maniera simile, l’episodio della donna peccatrice. Anzi, possiamo dire che i due episodi sono sovrapponibili in una maniera talmente straordinaria da andare al di là delle capacità della natura umana. Ciò che mi stupisce qui, nella storia del monaco, della donna e dell’orcio, è l’estrema sensibilità di Macario verso ciò che doveva provare quel monaco colto in flagranza. È impossibile, fratelli, che un padre secondo la carne o perfino un padre spirituale si comporti in questo stesso modo. Un simile comportamento proviene soltanto da chi è riuscito ad amare l’anima umana peccatrice di un amore divino, come Cristo solo sa amarla. San Macario ha visto un’anima denudata e per questo si è spogliato dell’abito della sua funzione di padre e di superiore e ha coperto quest’anima che tutti i suoi confratelli volevano mettere alla gogna. Macario ha visto un’anima umana ferita pericolosamente che i fratelli volevano far morire dissanguata infliggendole il colpo di grazia: lo scandalo pubblico. Macario si è posto, allora, nel mezzo mettendo a repentaglio la sua dignità, la sua giustizia, la sua paternità e perfino la sua purezza, per far cicatrizzare questa ferita sotto la sua protezione e nel suo abbraccio. E la ferita si è chiusa davvero, e quel monaco si è rialzato dalla sua caduta. È stato come se Dio l’avesse coperto in onore della straordinaria delicatezza di Macario. Macario non ha visto il peccato ma un’anima a immagine di Dio che era ferita. Il peccato, nonostante la sua mostruosità, non è riuscito a intaccare la straordinaria dolcezza di Macario nel relazionarsi con l’anima umana, anche quando si trova in una situazione terribile come in questo caso[19].
È bellissima questa immagine che ci trasmette la tradizione copto-araba: “Una volta usciti, il santo prese per mano il fratello… ‘Fratello mio…’”. A Macario interessa solo la salvezza di suo fratello. Non il peccato, non le chiacchiere, non il rischio di mettere a repentaglio la sua figura di superiore davanti ai fratelli più severi e zelanti. Prende il fratello per mano, per farlo rialzare, come un alter Christus che scende negli inferi esistenziali e prende per mano l’Adamo caduto.
Scriveva padre Matta a proposito della necessità del superiore di usare misericordia:
Quando un fratello veniva da me dopo aver fatto qualcosa di sbagliato, mi trovavo davanti a due opzioni: o rimanevo in silenzio, mostrandogli il mio amore, amandolo con quella tenerezza che è propria dell’amore divino che copre tutti i difetti e una moltitudine di peccati; oppure lo affrontavo con la verità, lo rimproveravo, indicandogli il suo errore e correggendolo. Ho trascorso tutta la mia vita dicendo la verità con i fratelli, con la Chiesa, con le persone, con il mondo intero. Così facendo mi sono messo alle spalle l’amore. Ma soltanto quest’anno, mi sono accorto di essere giunto a una situazione pericolosa, al punto estremo a cui può giungere la verità, a un punto dopo il quale sarei soltanto indietreggiato, mandando in fumo l’esperienza di una vita. L’amore deve prevalere[20].
Queste non erano semplici parole. L’abate ha ricordato spesso i gesti di misericordia che praticava padre Matta nei confronti dei fratelli che sbagliavano ed erano coscienti dei propri errori, soprattutto se si trattava di errori gravi. Raccontò che una volta un monaco aveva commesso un grave peccato. Padre Matta lo venne a sapere. Il monaco in questione andò a trovare padre Matta nella dépendance che il monastero ha sulla costa settentrionale. Anba Epiphanius era lì in quel momento e vide la scena. Racconta:
Appena lo vide, padre Matta gli corse incontro dicendo: “Padre, come stai? Da quanto tempo non ci vediamo! Mi sei molto mancato. Vieni, che mangiamo qualcosa insieme”[21].
Commentava anba Epiphanius:
Matta el Meskin ci ha insegnato che i monaci che sbagliano, anche se fanno gravi errori, sono quelli che hanno bisogno di più amore e accoglienza. Per potersi pentire e convertirsi devono sentire di essere amati. Anche se tu conosci l’errore di un monaco, cerca di non rinfacciarglielo ma di trattarlo con misericordia[22].
Della misericordia del vescovo Epiphanius si potrebbe scrivere molto. Credo che durante gli anni da semplice monaco avesse talmente tanto interiorizzato l’episodio dell’orcio e l’atteggiamento di padre Matta el Meskin verso i peccatori che, quando gli fu data la funzione di superiore, li tenne come stella polare che lo guidava nel servizio ai fratelli. In monastero gli episodi nei quali anba Epiphanius ha coperto i peccati dei monaci non si contano. Fino all’ultimo momento della sua vita, se era necessario menzionare un peccato o una pecca, non faceva mai il nome del monaco che aveva commesso il peccato. Diceva sempre: “Un monaco…”. Se l’interlocutore insisteva nel voler sapere il nome rispondeva: “Non è importante”.
È noto ormai a tutti che in monastero esisteva un numero di monaci che lo ha avversato fino dal giorno della sua elezione. Questi monaci avevano creato un gruppo su Whatsapp nel quale lo criticavano continuamente, andando spesso ben oltre i limiti della buona educazione. Quando i monaci a lui vicini lo supplicavano di ordinare la chiusura di questo gruppo, rispondeva semplicemente: “Io rispetto la libertà d’opinione. È mediante l’amore, non con la costrizione, che li guadagneremo”. Anba Epiphanius credeva fermamente all’amore che pazienta di cui parla San Paolo (cf. 1Cor 13,4) tanto da considerare la pazienza stessa nei confronti di un fratello peccatore come una forma d’amore. Un giorno disse a un monaco di Bose che gli chiedeva: “Che cos’è la pazienza?”:
La pazienza è l’amore. L’Apostolo dice, infatti, che l’amore pazienta. Dio stesso ha tanta pazienza con noi perché ci ama. Io non ci metterei niente a espellere queste persone che danno fastidio ma poi si ritroverebbero in mezzo a una strada. Spero, invece, che con la pazienza e con l’amore, fosse anche fra dieci anni, si convertano.
Sempre a proposito di questi elementi perturbatori, una volta un monaco anziano gli chiese di essere più severo e di pensare seriamente ad espellerli. Anba Epiphanius si fece serio in volto e gli disse:
Io sono un padre, non un direttore generale. La notte io non dormo pensando e pregando per la loro salvezza.
Anba Epiphanius è stato l’uomo dell’“orcio”, l’uomo della misericordia, del perdono, dell’amore che genera, che attende, il discepolo fedele di San Macario e di padre Matta el Meskin. Molti suoi figli spirituali hanno testimoniato l’amore che hanno provato davanti a questo vescovo e padre spirituale che ha combattuto fino all’ultimo respiro per rimanere un monaco autentico, fedele alla sua vocazione, un amore che è stato di una purezza, di una semplicità, di un’armonia tale che fa loro dire che tutto ciò sarà l’aria che respireremo nel Regno dei Cieli.
– Monaco in fieri
Anba Epiphanius si riteneva come Macario un monaco in fieri, ancora in cammino. Leggiamo nella Grande Lettera di Macario:
Benché onorati da Dio, si ritengono indegni, e pur trovandosi a progredire spiritualmente sono ai loro occhi come principianti, e pur essendo grandi disprezzano se stessi e si ritengono un nulla […] Tali anime potranno piacere a Dio e divenire eredi del Regno e, avendo cuore contrito, essendo povere in spirito e sempre affamate e assetate della giustizia e agognando agli onori perfetti, per la loro insigne carità verso Dio saranno ricompensati con doni insigni[23].
C’è un’altra storia su Macario che anba Epiphanius amava. Tentato per cinque anni dal pensiero di inoltrarsi nel deserto interiore per vedere chi vi abitasse, abba Macario capì che il pensiero veniva da Dio. Andato nel deserto interiore, trovò due monaci nudi che vivevano in una rinuncia totale del mondo e in un’ascesi severissima. San Macario fu talmente colpito dall’incontro con questi due anacoreti che, quando narrò l’episodio ai fratelli, introdusse e concluse il racconto con la frase:
Non sono ancora diventato un monaco ma ho visto dei monaci[24].
Anba Epiphanius ripeteva sovente questa frase che indicava il suo sentirsi in cammino, soprattutto quando incontrava altri monaci. C’era certamente di che meravigliarsi: come poteva un vescovo come anba Epiphanius, un padre di monaci, superiore di uno dei più antichi monasteri della cristianità, dire una frase del genere? La frase destava tanto più stupore in considerazione del fatto che molti lo vedevano come un modello limpido di ciò che significa essere monaci.
– Uomo escatologico
La vita bohairica di San Macario dice:
Pensava, come era sua abitudine, alla sua partenza e al suo incontro con Dio, alla sentenza che sarebbe stata proclamata per lui in quel momento[25].
Macario era tutto proiettato verso la vera patria che è nei cieli, la Gerusalemme celeste. Questo era il suo segreto che orientava la sua vita terrena e questo era anche il segreto di anba Epiphanius. Egli viveva immerso in un’“escatologia del quotidiano”. Ogni suo pensiero, ogni sua azione, ogni suo desiderio era orientato verso il Signore che viene, verso il momento dell’incontro terribile e beato con il volto luminoso del Cristo risorto. Più di una volta lo abbiamo sentito dire: “Quando lo [Gesù Cristo] vedrò faccia a faccia, che cosa gli dirò?”. Bastavano queste parole a trasmettere un insegnamento e a mettere sull’attenti i suoi figli spirituali.
Anche padre Matta el Meskin viveva in questo modo. In una delle omelie di anba Epiphanius egli offriva a una folla di fedeli riunitisi per il decimo anniversario della dipartita di padre Matta el Meskin, il 10 giugno del 2016, che cadde il giorno dopo la festa dell’Ascensione, questa tensione escatologica con la quale viveva padre Matta. Anba Epiphanius, dall’ambone della chiesa di San Macario, citò un lungo passaggio del suo padre spirituale:
Il vero monaco è colui che vive continuamente la festa dell’Ascensione, a cui basta, tutti i suoi giorni, ciò che è in alto, lo Spirito e la Verità. Sulla terra non teme nulla: né tribolazione, né angoscia, né persecuzione, né fame, né nudità, né pericolo, né spada (cf. Rm 8,35). Sulla terra non desidera nulla (cf. Sal 73,25): né onore, né amicizie particolari, né supremazia, né potere, né lode, né nomi, né immagine, né titoli. Egli, infatti, si alimenta misteriosamente di ciò che sta sopra: al cibo della Verità e alla bevanda dell’amore. Tutti coloro che si nutrono di queste due cose dimenticano ciò che appartiene a questo mondo, dimenticano la famiglia, la patria, e perfino loro stessi. Ogni persona in Cristo desidera la vita del mondo che verrà, secondo le parole del Credo. Il monaco, invece, fratelli, la vive già poiché è morto a questo mondo passeggero. L’Ascensione non è soltanto la festa di noi monaci. Essa è la nostra opera quotidiana nei confronti di questo mondo. Essa è l’unica vita che ci rimane[26].
Può sembrare all’apparenza insignificante, ma rientra in questo suo essere immerso in Cristo e nell’ottavo giorno inaugurato dalla sua Resurrezione, il fatto che anba Epiphanius non festeggiasse il compleanno. A chi gli faceva gli auguri, rispondeva sempre con la sua tipica gentilezza che “i monaci non festeggiano il compleanno”. Un monaco una volta gli fece gli auguri e la sua risposta fu la seguente:
Grazie, ma per favore non farlo di nuovo! Credo che, invece dell’inizio della nostra esistenza nella carne, sia più bello celebrare la festa della nostra esistenza e del nostro essere in Cristo, mistero che si ripete ogni giorno e in ogni momento, spesso senza che ce ne accorgiamo. Come facciamo ad accettare auguri e regali per un giorno terreno quando ormai, in Cristo, la nostra vita si è elevata al di là del tempo e dello spazio?
– Delicatezza
Vogliamo offrire un ultimo tratto di anba Epiphanius che sembra ispirato – ebbene sì, ancora! – da una bella storia attribuita a San Macario.
Il padre Pietro raccontò che san Macario, recatosi un giorno da un anacoreta e trovatolo malato, gli chiese: “Che vuoi da mangiare?”, perché nella cella non c’era niente. E poiché egli disse: “Un pasticcino”, quel forte non esitò ad andare a prenderlo fino ad Alessandria e lo portò al malato. E questo fatto meraviglioso rimase ignoto a tutti[27].
Due appunti preliminari. Innanzitutto, l’episodio fu certamente meraviglioso, straordinario: “l’” abba del deserto, il padre di Scete (e non “un” abba), va fino ad Alessandria per prendere a un anacoreta un pasticcino, anzi proprio quel pasticcino che a lui piaceva. Inoltre, il detto definisce Macario, per il semplice fatto di aver compiuto quel gesto, “quel forte”. “Forte”, qui, è certamente da intendere come “forte nell’amore”, in possesso di un amore tanto grande da spingerlo a fare un viaggio di una giornata e più per accontentare il fratello. Lo scopo sembra evidente: Macario teneva alla gioia degli altri, e non si lasciò sfuggire quest’occasione per far gioire il fratello malato, lui, Macario, che quando gli offrivano un bicchiere di vino, si privava dell’acqua per un giorno intero![28] Il fatto che questo episodio “rimase ignoto a tutti” è, ovviamente, meno evidente, dal momento che tutto il mondo ora lo conosce. Forse bisogna leggere tra le righe e intendere che Macario compì altri gesti simili di cui, però, non sappiamo nulla.
Anba Epiphanius aveva questa stessa delicatezza di Macario. Cercava di non lasciarsi sfuggire occasione per dare gioia ai fratelli con piccoli gesti. Una volta, era in partenza per l’estero per un impegno ecclesiale. Chiamò un fratello per comunicarglielo e poi gli disse: “Ti serve qualcosa da lì?”. Il fratello, imbarazzato che l’abate si interessasse così a lui, disse timidamente: “Ma padre, lasci stare, non si affatichi così per me. Avrà talmente tante cose da fare che io sono l’ultima cosa a cui pensare!”. Anba Epiphanius insistette: “Tu non ti preoccupare. Dimmi solo che cosa ti posso portare”. Al che il fratello rispose: “Padre, se proprio ci tiene, ci sarebbe quel tal caffè. Non costa molto, e lo trova nei supermercati, così non deve perdere tempo andando in giro”. Il fratello non pensava che fosse possibile acquistarlo anche in Egitto. Anba Epiphanius scoppiò a ridere, forse perché si attendeva una cosa molto più complicata e più ingombrante di una confezione di caffè. “Ma intendi quel caffè? Proprio quello?”. Imbarazzato per la risata che sembrava all’apparenza sminuire la richiesta, il monaco rispose imbarazzato: “Sì, ma solo se è possibile”. Anba Epiphanius rispose che avrebbe fatto il possibile per prendere il caffè, e salutò. Due ore dopo, qualcuno bussò alla porta della cella del monaco. Quest’ultimo aprì e non trovò nessuno. C’era soltanto una busta appesa alla maniglia. Dentro vi trovò proprio quel caffè che aveva chiesto, in grandi quantità.
tratto dall’introduzione al libro
Anba Epiphanius, L’arte dell’essere monaco,
San Macario Edizioni 2020, pp. 37-61.
[1] Si tratta di Macario il Grande (300-390), Macario l’Alessandrino (300 ca.-395) e Macario vescovo di Tkaw (m. 451), le cui reliquie giacciono nella grande chiesa di San Macario il Grande, nel suo monastero.
[2] Giovanni Kolobós (ca. 339-409), ovvero “nano”, così chiamato per la sua bassa statura. Padre del deserto, discepolo di Amoe, divenne noto per le sue numerose virtù, in particolare per la sua grande umiltà, obbedienza, pazienza, sopportazione e disponibilità verso il prossimo. Le sue reliquie riposano nella chiesa di Sant’Apa Iskhiron, nel Monastero di San Macario.
[3] Cf. Alfabetica, Macario 32 (cf. ed. it., p. 315).
[4] Cf. Alfabetica, Giovanni Nano, 36 (cf. ed. it., p. 241).
[5] Conversazione con alcuni monaci (luglio 1979), riportata in Tafsiliyya, p. 316.
[6] Sistematica, XXI, 54 (cf. ed. it., p. 608)
[7] Alfabetica, Macario 31.
[8] Matta el Meskin, “al-Qiddīs maqāriyūs šaḫṣiyya zāḫira bi-‘anāṣir ’insāniyya yanbaġī ’an yuqtadā bihā” (San Macario: una personalità ricca di gesti umani da imitare), St. Mark Review, dicembre 1976, pp. 23-24.
[9] Discorso con i monaci, 3 settembre 1982 (riportato in Tafsiliyya, p. 309)
[10] Dall’omelia MM-49 (cf. Audiografia).
[11] Alfabetica, Macario 11 (cf. ed. it., p. 309).
[12] Alfabetica, Macario 9 (cf. ed. it., p. 309).
[13] Matta el Meskin, “al-Qiddīs maqāriyūs šaḫṣiyya zāḫira bi-‘anāṣir ’insāniyya yanbaġī ’an yuqtadā bihā”, pp. 24-25.
[14] Cf. infra, p. 202.
[15] Alfabetica, Macario 28 (cf. ed. it., p. 314).
[16] Alfabetica, Macario 21 (cf. ed. it., p. 312).
[17] Alfabetica, Macario 17 (cf. ed. it., p. 311).
[18] Apoftegma n. 388 in Anba Epiphanius (ed.), Bustān al-ruhbān, p. 184. Una versione con elementi simili è attribuita ad abba Ammonas nella collezione alfabetica greca (Ammonas 10). Ma nella tradizione di Scete questo apoftegma è per eccellenza di Macario.
[19] Matta el Meskin, “al-Qiddīs maqāriyūs šaḫṣiyya zāḫira bi-‘anāṣir ’insāniyya yanbaġī ’an yuqtadā bihā”, pp. 26-27.
[20] Catechesi dal titolo al-Ḥaqq wa-l-maḥabba (Verità e amore) pronunciata nel 1967 nel deserto di Wādī al-Rayyān, di cui abbiamo una trascrizione fatta da uno dei monaci che vivevano in un regime di vita semianacoretica con padre Matta. Il testo è stato pubblicato in italiano quasi integralmente in Matta el Meskin, Ritrovare la strada: meditazioni per la Quaresima, Qiqajon, Magnano 2017, pp. 227-231.
[21] Da una conversione privata avuta con anba Epiphanius il 19 settembre 2015.
[22] Dalla medesima conversazione.
[23] Macario il Grande, La grande lettera, 5. Cf. Pseudo-Macario, La grande lettera, a cura di Maria Benedetta Artioli, Gribaudi, Torino 1989, p. 62.
[24] Apoftegma n. 37 in Anba Epiphanius (ed.), Bustān al-ruhbān, pp. 28-29. Cf. Alfabetica, Macario 2 (cf. ed. it., p. 304).
[25] Vita bohairica di San Macario, XLI,17. Cf. Vie de S. Macaire l’égyptien, a cura di Satoshi Toda, Gorgias Press, Piscataway, nj 2011, p. 472.
[26] Matta el Meskin, “Ṣu‘ūd al-masīḥ” (L’ascensione di Cristo), in Id., al-Qiyāma wa-l-ṣu‘ūd (Risurrezione e ascensione), Monastero di San Macario, Wādī al-Naṭrūn 20003, p. 380.
[27] Alfabetica, Macario 8 (cf. ed. it., p. 308).
[28] “Raccontavano che il padre Macario, quando si ricreava con i fratelli, si era imposto una regola: se vi era del vino, lo beveva per riguardo ai fratelli, e, per un bicchiere di vino, stava un giorno senza bere acqua. Se i fratelli glielo davano per ristorarlo, l’anziano lo accettava con gioia per potere poi macerarsi. Ma il discepolo, che lo sapeva, disse ai fratelli: ‘In nome del Signore, non dateglielo, altrimenti nella sua cella si punirà!’. Appreso questo, i fratelli non gliene offrirono più” (Alfabetica, Macario 10; cf. ed. it., p. 309).