In un brano sull’Incarnazione scriveva padre Matta el Meskin:
Nel Natale Dio è apparso mite, con la voce fioca di un neonato: le fondamenta del cielo si scossero con la loro gloria, si piegarono, si abbassarono (cf. Sal 17 [18],10), e sulla terra le schiere dell’Altissimo scesero per lodare Dio, commosse profondamente, perché stupefatte dalla sua umiltà. Così, se le creature peccatrici non riescono a sopportare la gloria celeste di Dio, le buone creature celesti non riescono a sopportarne l’umiltà. È per questo che soltanto i cuori timorosi di Dio vengono scossi dal mistero del Natale[1].
Abba Matta mostra uno dei tanti paradossi dell’Incarnazione di Dio: Dio nasconde la sua gloria ai terrestri perché i terrestri peccatori non riuscirebbero a sopportarla e si mostra come la più umile delle creature scuotendo il cielo, i cui abitanti non riescono a sopportare un tale abbassamento e una tale umiltà. E conclude abba Matta: soltanto gli uomini e le donne che percepiscono la gloria di Dio nel proprio cuore sono capaci di commuoversi per la meraviglia della Natività nella carne di Dio.
Soffermiamoci però sul salmo citato. Abba Matta cita il salmo 18, o 17 secondo la versione greca, in cui si dice che “[Dio] piegò il cielo e discese” (Sal 17,10; LXX). Il riferimento è dunque salmico. Che cosa significa “piegò il cielo e discese”? “Piegare il cielo” è un’immagine che ci deve far pensare a un evento straordinario, qualcosa che scardina completamente l’universo così come era conosciuto fino ad allora. Dio era solo in cielo, e si rivelava soltanto temporaneamente ai terrestri. Dio scendeva, sì, ma per portare un particolare messaggio, giusto il tempo del messaggio, o poco più. Il cielo si apriva talvolta ma poi si richiudeva. C’era uno iato fortissimo tra ciò che era di Dio e ciò che era degli uomini, tra il cielo e la terra. Ora, in Gesù Cristo, Dio è come se scardinasse il cielo, come se togliesse le “viti” con cui lo aveva fissato, e lo “piegasse” perché possa aprirsi alla terra, e così aprire un passaggio. Ora, alzando gli occhi al cielo, respiriamo. Ma c’è di più, molto di più, in gioco. Dio non “ripiega” più questo cielo, ma lo lascia ormai così, scardinato, aperto, spalancato.
Questo passaggio non è, però, in prima battuta un passaggio da “sotto” verso “sopra”, un salire dell’uomo. L’uomo non può salire se non quando Dio discende. L’uomo non può “piegare la terra e salire”, scappare dalla valle di lacrime nella quale si trova, se non quando Dio decide di “piegare il cielo” e di “scendere”. E allora, ecco, che il salmo ci dice che Dio, dopo aver scardinato il cielo, piegandolo, “discese”. “Venne giù”, dice alla lettera la versione copta dei salmi. Discese in una donna, una nostra consanguinea, una nostra conterranea, una donna come tutte, ma non come tutte, perché fu prescelta da Dio. Dio, dunque, discese nel suo ventre e la santificò, rendendola sua propria Madre secondo la carne e Madre di tutti i credenti. Nel momento in cui la Vergine Maria disse all’Arcangelo “Sia fatto secondo la tua parola”, anzi non appena disse “sia fatto”, la prima cellula divinoumana esplose di luce all’interno del suo utero. Il Dio-uomo, Cristo, era stato concepito. Così come Dio disse “sia la luce” e “la luce fu” così, nell’Incarnazione, la Vergine disse “sia fatto” e fu fatto. E di nuovo… fu luce.
Un evento straordinario, questo del concepimento del Dio-uomo, dal quale sarebbe derivato un effetto fondamentale: quando la Vergine Maria disse “sia fatto”, si trasformò in lei, donna benedetta tra le donne, la sua prima cellula umana in umanodivina, così permettendo a tutta l’umanità di poter essere divinizzata nel suo Figlio Gesù. Ora cielo e terra sono un’unica realtà spalancata: Dio ora è all’opera nel riunire tutte le cose, nei cieli e sulla terra, tà pànta, ripetiamo: tutte le cose, tutto, all’unico capo dell’universo, Cristo, il Dio-uomo (cf. Ef 1,10).
“Piegò i cieli e discese”, dunque. Così preannunciava il salmo, secoli prima dell’Incarnazione del Logos di Dio. Ma nella mente di un monaco copto c’è anche altro. In un brano della Salmodia di mezzanotte, i monaci copti cantano:
L’uno della Trinità, consustanziale al Padre, guardò la nostra bassezza e la nostra amara schiavitù. Piegò i cieli dei cieli, e venne nel grembo della Vergine, divenendo uomo come noi, eccetto il solo peccato. Nacque a Betlemme, secondo le voci dei profeti, ci guarì e ci salvò, poiché noi siamo il suo popolo[2].
Ecco dunque come interpreta la liturgia il brano salmico. Guardando la nostra bassezza, il nostro essere schiavi di un circolo vizioso di vita biologica che porta inevitabilmente alla morte, il Logos non poté non “abbassarsi”. È in preda a un tremore d’amore che egli “piegò i cieli”, anzi “i cieli dei cieli” e discese. Lo fece “poiché egli fu vinto dalla sua tenerezza” dice il quinto brano della theotokia del lunedì.
Vinto dalla sua tenerezza, divenne uomo come noi, tranne che per il peccato che ci aveva deturpato. Questa sua discesa non fu una semplice visita. Se si scende, si può sempre risalire e lasciare tutto uguale. Il Logos scese per “guarire” e per “salvare”, due termini che nelle lingue semitiche e in copto sono strettamente collegati. “Salvezza” vuol dire principalmente guarigione, dal peccato, dalla morte, dal buco nero del nulla. Egli è il Salvatore, con la “esse” maiuscola, in qualsiasi circostanza di questa o dell’altra vita in cui non siamo “sani”.
In un altro brano della Salmodia, a cui probabilmente pensa padre Matta el Meskin, leggiamo:
Nella cura della tua bontà, hai piegato i cieli, e sei sceso verso di noi. Come medico vero che sa dare la giusta medicina, hai curato tutte le nostre malattie[3].
Ecco un’ulteriore esegesi del Salmo 17. È perché Dio si cura di noi (cf. 1Pt 5,8) e perché è buono, che ha piegato il cielo ed è disceso. E questo essere di Dio ci è stato mostrato chiaramente dalla vita di Gesù Cristo. Ancora una volta lo scopo del “discendere” è “terapeutico”: lui solo conosce qual è la giusta medicina, lui solo sa come guarire le nostre malattie. Da soli non possiamo nulla. Ma il Signore, da buono e amorevole medico com’è, si è piegato sulle nostre piaghe, curando, fasciando, guarendo.
Quale grande mistero l’aver “piegato il cielo” e l’esser “disceso”!
A colui che “piegò il cielo e discese” e permise a noi di “piegare la terra e di risalire” siano gloria, onore, potenza, adorazione e inni di gratitudine, in questo Avvento e in ogni momento, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen.
[1] “al‑Ḫalīqa kulluhā tahallalat bi-mağī᾿ika” (Tutto il creato ha gioito per la tua venuta), in ᾿A῾yad al-ẓuhur al-’īlahī, pp. 96-99
[2] Ottavo brano della theotokia del giovedì, in Salmodia copta, pp. 219-220.
[3] Ventisettesima strofa dello psali del lunedì, in Salmodia copta, p. 253