“E conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Come il Padre conosce me e io conosco il Padre” (Gv 10,14)
Dobbiamo approfondire in che modo egli affermi che ci conoscerà, e in che modo sarà conosciuto da noi, come egli conosce il Padre, e il Padre lui […]
Penso che Cristo qui parli della conoscenza non semplicemente nell’accezione di sapere, ma piuttosto usi questo vocabolo nel senso di parentela, sia quella che deriva dalla stirpe ed è naturale, sia quella che consiste nella partecipazione della grazia e dell’onore. I fanciulli greci sono soliti chiamare conosciuti, non solo i familiari secondo la stirpe, ma anche i fratelli consanguinei. E che la sacra Scrittura usi la parola conoscenza nel senso di parentela, lo sapremo da questo passo.
Dice, in un luogo, Cristo di quelli che non gli sono assolutamente parenti: «Molti mi diranno in quel giorno – cioè del giudizio Signore, Signore, non abbiamo fatto, nel tuo nome, molti miracoli, e non abbiamo cacciato demoni? Ma allora io dichiarerò ad essi: Non vi ho mai conosciuti» [1].
Ora, se la conoscenza consistesse soltanto nel sapere, come potrebbe ignorare alcuni colui al quale «tutto è nudo e scoperto davanti ai suoi occhi»[2], come è scritto, e «che sa tutto prima che nasca»[3]? Dunque, è cosa stolta, anzi empia pensare che Dio non conosca alcuni, ma bisogna piuttosto ritenere che egli dica di non aver nessun rapporto di parentela o di somiglianza con loro.
Non li conosco, dice, come amanti della virtù, non come seguaci fedeli della mia parola, e neppure come legati a me attraverso le buone azioni.
Allo stesso modo ha detto anche al sapientissimo Mosè: «Io ti conosco più che tutti gli altri e hai trovato grazia presso di me»[4]. Ciò voleva significare: Mi sei familiare più di tutti, e hai ottenuto grazia presso di me.
E non dico questo per negare che conoscenza possa essere presa nel significato di sapere, ma per pensare il modo più conveniente al concetto.
Dunque, «io conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me. Come il Padre conosce me e io conosco il Padre», significa: Sono imparentato con le mie pecore, e le mie pecore si imparenteranno con me nel modo in cui il Padre è imparentato con me ed io, a mia volta, lo sono con il Padre.
Come infatti Dio Padre conosce il suo proprio Figlio, avendo il proprio Figlio e frutto della sua sostanza; e, di nuovo, come il Figlio conosce il Padre, avendo lui veramente Dio, come chi è generato da lui, allo stesso modo, anche noi siamo diventati suoi parenti, vantiamo la sua stirpe, e siamo chiamati figli, come è stato detto da lui: «Eccomi, io e i figli che Dio mi ha dato»[5]. Siamo, perciò, della stirpe del Figlio, e siamo chiamati figli[6], e, per mezzo di lui, siamo della stirpe del Padre, dal momento che l’Unigenito Dio, generato da Dio, si è fatto uomo, avendo presa la nostra stessa natura, senza però il peccato. Infatti, come siamo della stirpe di Dio e in che modo siamo partecipi della divina natura[7]?
E non abbiamo modo di gloriarci solo nel fatto che Cristo ha voluto riceverci nella parentela, ma la forza stessa della cosa afferma ciò come vero.
Infatti il Verbo di Dio è natura divina anche con la carne, e noi siamo della sua stirpe, perché ha preso la stessa nostra carne sebbene egli sia, per natura, Dio. Perciò è simile il modo della parentela. Come egli è unito al Padre e, per identità di natura, il Padre è unito a lui, così anche noi siamo uniti a lui, in quanto si è fatto uomo, ed egli a noi.
Per mezzo di lui, dunque, ci uniamo al
Padre. Cristo è, infatti, come qualcosa di limitrofo (μεθόριος) fra la divinità e l’umanità, che
esistono tutte e due nella stessa persona, che ha in se stesso cose tanto
dissimili fra loro: è unito a Dio Padre in quanto è Dio per natura ed è unito
agli uomini in quanto è veramente uomo.
Cirillo di Alessandria
tratto da: Commento al Vangelo di Giovanni, II, Città Nuova, pp. 279-281
[1] Mt. 7, 22-23.
[2] Ebr. 4, 13.
[3] Dan. 13, 42.
[4] Es. 33,12.
[5] Is. 8,18.
[6] At. 17,29.
[7] 2Pt. 1,4.