Nelle scorse settimane c’è stata un’enorme polemica in ambito cattolico sulla nuova traduzione adottata dalla CEI “e non abbandonarci alla tentazione” del versetto greco di questo versetto greco καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν (Mt 6,13).
Giusta? Sbagliata? Quello che si può certamente dire è che non si tratta di una traduzione letterale, ma ad sensum. L’unica cosa che veramente non capiamo è perché qui tradurre “abbandonare” e al versetto 26,41, nonostante la stessa area semantica (eis + verbo di moto) e la stessa struttura sintattica (eis + verbo + eis), tradurre “[pregate,] per non entrare in tentazione”. Per coerenza bisognava tradurre: “pregate per non essere abbandonati alla tentazione”. Ma lasciamo questa discussione ai filologi.
In ogni caso un grande problema ha suscitato la parola ambivalente πειρασμός che la CEI interpreta come la Vulgata con il significato di “tentazione” (di origine diabolica) e non di “prova” (di origine divina). Il problema non nasce oggi ma è certamente antico.
Vogliamo contribuire a questo dibattito offrendo semplicemente l’interpretazione – che ci sembra cristallina – che hanno fatto alcuni Padri della Chiesa, anche latini: Cirillo di Alessandria, Tertulliano, Cipriano, Giovanni Crisostomo, Origene.
Quando siamo intenti alla preghiera, egli ci comanda di dire: Non ci indurre in tentazione. Luca conclude la preghiera con queste parole, ma Matteo aggiunge: Ma liberaci dal maligno (Mt 6,13). C’è una certa stretta connessione nelle frasi, perché quando le persone non sono indotte in tentazione sono anche liberate dal maligno. Se qualcuno forse volesse dire che non esservi indotto è la stessa cosa che essere liberato da esso, questi non errerebbe lontano dalla verità.
Cirillo di Alessandria
Commento a Luca, omelia 77
Alla completezza della preghiera, che era così adeguata, Cristo ha aggiunto che dobbiamo pregare non solo che i nostri peccati siano perdonati, ma anche che possiamo evitarli: non ci indurre in tentazione, cioè: non lasciare che siamo indotti, certo da colui che tenta; del resto lungi da noi che il Signore sembri tentare, come se non fosse consapevole della fede di ciascuno o cercasse di sviarlo! Questa debolezza e questo dispetto appartengono al diavolo. Anche nel caso di Abramo, Dio ha ordinato il sacrificio di suo figlio non per tentare la sua fede, ma per provarla, per dare per suo tramite un esempio del suo comandamento che presto avrebbe stabilito, cioè che nessuno deve amare i suoi cari più di Dio. Cristo stesso fu tentato dal diavolo e mostrò il capo e l’artefice della tentazione. Conferma questo passo con quello che segue: Pregate di non entrare in tentazione (Lc 22,46); essi furono tentati di abbandonare il Signore perché si erano abbandonati al sonno invece di pregare. Corrisponde a questo la sentenza finale che spiega cosa significhi: non ci indurre in tentazione, cioè: liberaci dal male.
Tertulliano
La preghiera 8,1-6
Il Signore insiste su un’altra intenzione : Non sopportare che noi siamo indotti in tentazione. Da queste parole risulta che l’avversario non può nulla contro di noi senza il permesso preventivo di Dio.
Per questo dobbiamo volgere a Dio tutto il timore, la pietà e l’attenzione, perché nelle tentazioni il potere del maligno dipende dal potere di Dio. Il che prova la Scrittura, quando dice : Nabucodonosor, re di Babilonia, venne a Gerusalemme e l’assediò, e il Signore la consegnò nelle sue mani (IV Re 24,11). Al Maligno è concesso il potere contro di noi, in ragione dei nostri peccati, secondo la Scrittura:
E a proposito di Salomone che peccava e si allontanava dalle vie del Signore è detto: E il Signore suscitò Satana contro di lui.
Chi ha abbandonato Giobbe al saccheggio
e Israele ai saccheggiatori?
Non è forse il Signore?
Essi hanno peccato contro di lui,
non hanno voluto camminare nelle sue viee non hanno ascoltato la sua legge.
Per questo ha riversato su Israele l’ardore della sua collera.
(Isaia 42,24)
Dio può dare il potere al demonio in due modi: per nostro castigo, se abbiamo peccato; per nostra glorificazione, se accettiamo la prova. Vediamo che questo fu il caso di Giobbe. Ecco, tutto quanto gli appartiene io te lo consegno; solo non portare la mano su di lui (Giobbe 12, 1).
Nel Vangelo il Signore dice, al momento della Passione: Non avresti su di me nessun potere se non ti fosse stato dato dall’alto. Quando dunque preghiamo per non entrare in tentazione, ci ricordiamo della nostra debolezza, affinché nessuno si consideri con compiacenza, nessuno si inorgoglisca con insolenza, nessuno si attribuisca la gloria della sua fedeltà o della sua passione, allorché il Signore stesso ci insegna l’umiltà quando dice: Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è ardente, ma la carne è debole (Marco XIV, 38).
Se anzitutto facciamo professione d’umiltà, se attribuiamo a Dio tutto quello che chiediamo con timore e riverenza, possiamo essere sicuri che la sua bontà ce lo concederà.
Cipriano
Il Padre nostro 25-26
Qui Gesù ci fa comprendere chiaramente la nostra bassezza e reprime la nostra presunzione, insegnandoci che se non dobbiamo fuggire i combattimenti, non dobbiamo tuttavia gettarci da noi stessi in preda alle tentazioni. Sarà così per noi più splendida la vittoria e per il diavolo più vergognosa la sconfitta. Quando siamo trascinati alla lotta, dobbiamo resistere con tutta la nostra fermezza e con tutto il nostro vigore; ma quando non siamo chiamati alla battaglia, dobbiamo tenerci in riposo, attendere il momento dello scontro, mostrando insieme umiltà e coraggio.
Giovanni Crisostomo
Commento al Vangelo di Giovanni 19,6
Se la vita è tentazione, non è possibile non essere tentati, ma non ci si deve far vincere dalla tentazione. Infatti colui che è consegnato, secondo quanto ha meritato, all’ignominia e alla vergogna, cade in tentazione, mentre colui che vince nella lotta non può essere tentato e, al di là delle proprie forze, non abbandonato, non cade in tentazione.
Origene
Frammento 123