Allora Gesù prese a dire loro così: «In verità, in verità vi dico: Il Figlio da sé non può fare nulla, ma soltanto ciò che vede fare al Padre; poiché qualunque cosa Egli faccia, il Figlio lo fa ugualmente [ὁμοίως]»
Ciò che abbiamo detto precedentemente lo spiega, di nuovo, in altro modo, cercando di portare, in ogni modo, i suoi ascoltatori alla conoscenza della verità. Pensando, ripete, in altro modo, l’insegnamento che prima, per la loro mediocrità, non è stato afferrato, e nonostante che l’argomento sia lo stesso, lo tratta però diversamente.
È compito infatti d’un buon maestro non insegnare in fretta né sfiorare l’argomento, ma proporre distintamente l’insegnamento con eleganza e varietà, spiegando spesso la difficoltà delle questioni con un modo di parlare chiaro.
Mescolando pertanto l’umano col divino, e combinando un discorso di media portata con tutti e due gli elementi, in qualche modo fissa lentamente la dignità conveniente all’Unigenito; e mette in rilievo la natura umana, dicendo come Signore e, nello stesso tempo, come uno dei servi: «Il Figlio da sé non può far nulla, ma soltanto ciò che vede fare al Padre. Poiché quanto questi fa, il Figlio similmente lo fa». Egli, in questo modo, dimostra l’identità della sua sostanza col fatto che può fare indifferentemente le stesse cose che sono di Dio Padre, e operare similmente come il Padre.
Infatti, quelle cose che hanno la stessa natura, agiscono similmente; mentre, quelle che hanno una natura diversa, hanno senz’altro un diverso modo di operare.
Dunque, come Dio vero da Dio Padre vero, afferma di poter fare le stesse cose con lui; ma affinché appaia che egli è uguale al Padre non solo nella potenza, ma ha sempre lo stesso pensiero e la medesima volontà, dice di non poter fare nulla da sé, se non ciò che vede fare al Padre. È come se dicesse, più chiaramente, a coloro che lo perseguitavano per aver guarito un uomo in giorno di sabato: Voi credete che sia stato trasgredito il precetto del sabato; ma mai avrei fatto ciò se non avessi visto che il Padre agisce in modo uguale, in quanto egli, sebbene per mezzo mio, fa ciò che riguarda la conservazione del mondo, anche di sabato. Non è possibile, dice, che io, suo Figlio per natura, non faccia e non voglia, in tutto, le cose che sono del Padre, non come se prendessi un modello da fuori, come da un maestro, o che sia costretto a volere le stesse cose del Padre, stimolato da una volontà impositiva, ma perché, per le leggi dell’immutabile natura, insieme a Dio Padre, ho la stessa volontà e operosità.
In questo senso si devono intendere le parole secondo le quali non può fare nulla da sé.
In questo modo, credo, dobbiamo pensare piamente, «facendo prigioniero ogni intelletto perché obbedisca a Cristo», come è scritto.
Ma, forse, colui che combatte la verità obietterà e, ciò che è stato detto, lo farà come cibo della sua insipienza, e incalzerà dicendo: Se il Figlio è uguale al Padre, e non gli concede necessariamente nessuna superiorità per una inferiorità della sua natura, quale ragione lo spinge a dichiarare apertamente di non poter fare nulla da sé, se non lo vede fare al Padre? Chiaramente, egli continua, con queste parole ammette di non poter fare assolutamente nulla da sé, giacché conosce lui che è più bravo e più eccellente di sé.
E tu torni, di nuovo, a sofisticare? Che cosa risponderemo a queste tue parole?
Il nemico di Cristo moltiplica le sue bestemmie, e non capisce di essere ubriaco a causa della sua ignoranza.
Era opportuno, mio caro, approfondire il significato di ciò che è stato esposto, e non insultare temerariamente con ragionamenti insulsi.
Come pensi di spodestare il Figlio della sua uguaglianza col Padre, per il fatto che dice di non poter fare nulla da sé, se non lo vede fare al Padre? Forse che dice queste cose, come se non fosse uguale per potenza? Ebbene, anche da ciò che è stato proposto si può arguire che il Figlio ha la stessa potenza del Genitore piuttosto che essere privo di divina potenza.
Infatti, non sembra che egli dica: Il Figlio non può fare nulla da sé se non ha il potere dal Padre (affermare ciò sarebbe certamente di uno realmente debole e inferiore), ma «se non vede che lo fa il Padre».
Credo che nessuno si opporrà, se diciamo che il senso della vista serva naturalmente per vedere le cose, e non per ricevere maggiori forze. Dunque, quando il Figlio dice di vedere le opere del Padre, non vuol dire che è inferiore a lui ma, al massimo, imitatore o spettatore, come diremo meglio in seguito.
Che poi appaia di eguale potenza attraverso l’identità e molto simile operazione in ogni cosa, egli stesso lo insegnerà chiaramente nelle parole seguenti, parlando del proprio Padre: «Poiché qualunque cosa questi faccia, il Figlio ugualmente lo fa».
Come, dunque, è inferiore chi è capace dì operare esattamente come il Padre? Forse che le qualità del fuoco agiranno diversamente dal fuoco, senza che si veda qualche cambiamento in ragione dell’azione? E come può accadere ciò? Come, dunque, il Figlio farà le stesse cose del Padre, se, per questo, resta indietro, come se non avesse una forza uguale?
Ma, per il momento, basta aver detto questo per quello che ci è stato proposto. Ragioniamo di nuovo, invece, in modo diverso, per vedere se la natura del Figlio possa essere inferiore al Padre: discorriamo similmente sulla potenza.
Dicono che il Figlio è Dio da Dio per natura e vero, e realmente della sostanza del Padre, oppure dicono che è Dio, aggiungendo però, empiamente, che è diverso dalla sostanza del Padre?
Se essi sostengono che il Figlio non è della sostanza del Padre, non sarà né Dio per natura né Dio vero. Chi infatti non è da Dio per natura, non sarà Dio per natura, né sarà Figlio se non è generato dalla sostanza del Padre, ma ci viene presentato da loro come un figlio spurio e un Dio nuovo.
Se invece non diranno questo, arrossendo per l’assurdità dei loro insegnamenti, e affermeranno che l’Unigenito è veramente dal Padre, ed è veramente Dio per natura: come, il Figlio sarà inferiore al Padre, oppure come, qualora egli sia meno potente in qualche cosa, non accuserà di debolezza la sostanza del Padre?
Infatti, se Dio per natura può avere in sé una inferiorità, che cosa impedisce che questa l’abbia anche il Padre, dal momento che la divina e ineffabile natura ha, sia pure una sola volta, la possibilità di subirla e, in questo modo, appaia, secondo la loro dottrina, anche nel Figlio?
Dunque, dobbiamo dedurre che Dio non è immune da sofferenza, né è sempre lo stesso, né assolutamente stabile nella immutabile felicità?
Ma chi, dimmi, potrà sostenere tali cose? Chi, nonostante che la divina Scrittura gridi ad alta voce che il Figlio è il Signore delle potenze, si prenderà la responsabilità di dire che il Figlio deve essere corroborato, e risultare quindi imperfetto ciò che propriamente egli solo ha insieme al Padre e allo Spirito Santo?
Ma, di nuovo, l’avversario replicherà: per questa ragione noi diciamo che il Padre è superiore al Figlio. Il Padre è la prima causa delle cose, poiché è perfetto nella potenza e nella sapienza; il Figlio, invece, prima osserva, poi, in un secondo momento, opera, imitando l’azione del Padre, in tal modo da essere ritenuto anche lui Dio. Questo infatti ci insegna quando afferma di non fare nulla da sé, ma soltanto ciò che vede fare al Padre.
Ma che cosa dici, o sventatissimo? Il Figlio esprime in sé i modelli dell’azione del Padre per essere in tal modo ritenuto Dio? È dunque Dio per aver imparato, e non per natura; e come noi raggiungiamo la scienza e l’arte, così lui la dignità? Ed è piuttosto artefice delle opere della divinità che Dio vero? E perciò diverso dal- la sua arte, sebbene quella sia conveniente a Dio? Per- ché, dunque, gli angeli del cielo, e noi con loro, adoriamo senza commettere colpa, chi è al di fuori dei limiti della divinità, e ripone la sua gloria soltanto nell’apprendimento, mentre, invece, la sacra Scrittura c’impone di adorare nessun altro al di fuori del vero Dio? Essa dice infatti: «Adorerai il Signore tuo Dio, e a lui solo renderai culto».
Ma la santa moltitudine degli angeli non ha sbagliato, uscendo fuori rotta, e adora il Figlio e, con noi, rende il culto a colui che riconosce Dio per natura, e non per apprendimento, come essi dicono delirando. Essi non si accorgono, infatti, a quanto pare, in quanta assurdità cadano per questa loro dottrina.
Prima di tutto, il Figlio subirà alterazione e muta- mento dal meno al più, sebbene egli stesso dica per mezzo del profeta: «Vedete, vedete che sono io, e non mi sono mutato». Ma mentirà certamente il Salmista che grida al Figlio, nello Spirito: «Ma tu sei sempre lo stesso». Aspetta, infatti, come essi dicono, che il Padre operi su qualche cosa, come guida e maestro, affinché, dopo averlo osservato, divenga suo imitatore.
Ma come è possibile che chi si comporta in questo modo non sembri che passi dall’ignoranza alla conoscenza, e non sia trasformato dal peggio al meglio, se pensiamo che il conoscere qualche bene è meglio del non conoscerlo?
E ci dicano poi quale assurdo ne verrebbe per questo, se pensano a Dio come maestro piuttosto che 0؟- me Padre: forse che il Figlio aspetta di vedere, perché ignora le opere del Padre o perché non ha un’idea molto esatta di quelle? Infatti, se diranno che egli aspetta, sebbene le conosca, dimostreranno chiaramente che il Padre opera invano, e si occupa di un’opera inutile. L’uno sta a guardare ciò che conosce perfettamente, come se non lo conoscesse; l’altro poi si accinge a insegnare a quello che già sa. E chi può dubitare che tali cose sono assolutamente ridicole?
Forse non diranno questo, ma si volteranno a ciò che è contrario. Affermeranno, infatti, che egli aspetta necessariamente che il Padre operi, affinché egli impari, vedendolo, a operare.
Come, allora, egli «conosce tutto prima che accada» (Dn 13,42)? Oppure, come veramente egli dirà di se stesso: «Io sono un Dio vicino, dice il Signore, non un Dio lontano: forse rimarrà a me nascosta qualche cosa?» (Ger 23,23-24). Come non sarà assurdo credere allo Spirito, e approfondire e conoscere i segreti di Dio, mentre si pensa, invece, che colui che dà lo Spirito ignori le opere del Padre e sia inferiore, quanto a conoscenza, al suo Spirito? Forse che il Figlio cesserà anche di essere sapienza, giacché non conosce affatto, e impara per apprendimento? Sarà infatti capace di ricevere la sapienza piuttosto che la stessa Sapienza per natura. La Sapienza è quella che largisce la sapienza, non quella che riceve la sapienza, come, del resto, la luce è quella che illumina, non quella che è illuminata. Dunque, egli sarà diverso dalla sapienza che è in lui e quindi, come prima cosa non sarà semplice, ma composto di due cose!
Inoltre finirà anche di essere Dio: parlo di Dio per natura e sostanzialmente. Infatti, imparare da un altro, ed essere composto, non è compatibile con la natura divina che ha, come suo proprio e perfettissimo bene, la semplicità.
E se il Figlio non è, per natura, Dio, come opera e compie quelle cose che convengono soltanto a Dio?
O forse diranno che a lui basterà soltanto, anche per avere la potenza conveniente a Dio, che veda Dio che opera, e avere cosi, con la semplice vista, di essere Dio per natura, e di poter compiere molte opere, tante quante ne vede fare al Padre? Dunque, nulla vieta che anche molti altri diventino dèi, se lo stesso Padre permetterà di mostrare la via delle sue opere: e così l’essere eccellente consisterà nell’imparare quello che è superfluo della sostanza del Padre! Infatti, non con l’apprendimento, come essi dicono, si eleverà alla dignità della natura divina chi afferma: «Io e il Padre siamo una cosa sola»; «Chi ha visto me, ha visto anche il Padre».
Considerino, dunque, quale cumulo di bestemmie derivi dal voler pensare in questo modo, e comprendano veramente chi è il Figlio, secondo quanto è scritto.
Infatti, non per la contemplazione delle opere del Padre, e neppure perché ha lui come guida e maestro nelle opere, egli compie e fa i miracoli ed è perciò Figlio, ma perché, in certo modo, una legge naturale lo porta ad essere uguale in tutto a colui che l’ha generato, eguaglianza che risplende e si manifesta anche per mezzo della somiglianza assoluta delle opere.
Ma, dopo aver proposto di nuovo la testata del discorso e, se vi pare, approfondendola con maggiore acutezza, cerchiamo di vedere con attenzione quale sia il significato delle parole, e consideriamo con quale pietà convenga che noi le comprendiamo.
Dunque: «In verità, in verità vi dico: Il Figlio da sé non può fare nulla, ma soltanto ciò che vede fare del Padre; poiché quanto questi fa, il Figlio similmente lo fa».
Tu vedi come, anche attraverso l’identità assoluta delle opere, si mostra in tutto uguale al Padre, in modo che, per questo, appaia anche come erede della sostanza del Padre. Il Salvatore dice queste cose come se necessariamente e senza dubbio debba essere ritenuto Dio per natura colui che opera in modo uguale a’quello in cui opera il Padre.
Nessuno, poi, si dovrebbe scandalizzare quando, in ragione della sua condizione, sembra che il Figlio non possa far nulla da sé, se non quello che vede fare dal Padre.
Infatti, una volta che, «presa forma di schiavo», «si è fatto uomo», a causa della unione con la carne, non sempre usava, nel parlare, la libertà e l’autorità che conviene a Dio, anzi, data la condizione, usava talvolta il linguaggio conveniente, nello stesso tempo, a Dio e all’uomo. Era infatti veramente l’uno e l’altro. Questa è la vera dottrina. Ma penso che la dottrina proposta debba essere spiegata anche in altro modo, e debba approfondirsi più acutamente il nocciolo della questione.
«Il Figlio non può fare nulla da sé – egli dice -, ma soltanto ciò che vede fare dal Padre». L’espressione «non può», ossia è impossibile si dice di alcune cose, cioè conviene ad alcune cose. La parola, infatti, si dice non è indizio di necessarietà o di debolezza, secondo noi, ma spesso indica stabilità delle nature e stato irremovibile delle sostanze relativamente alla natura e, perciò, naturale e immutabile operatività di ciascuna.
Ma, se vi pare, spieghiamo la cosa con alcuni esempi.
Se uno, per esempio, dicesse di non poter portare un legno grosso e pesante da trascinare, denunzierebbe la sua debolezza. Se un altro, invece, dicesse: Sono un uomo ragionevole, nato da padre ragionevole, e non posso fare, come mio proprio e da me stesso ciò che non vedo inerente alla natura di chi mi ha generato: allora, l’espressione non posso indica che la natura è costante, e non può essere trasformata, da ciò che è, in un’altra. Non posso, infatti, dice, da me, non essere un animale ragionevole, abolendo quelle caratteristiche che sono proprie della natura. Non vedo, infatti, che possa accadere ciò nella natura del genitore. Allo stesso modo comprenderai Cristo che dice: «Il Figlio non può fare nulla da sé, ma soltanto ciò che vede fare dal Padre». Non rimproverate, egli dice, le opere del Figlio: giacché egli, vedendo la natura del Padre, come nei propri pensieri o movimenti naturali, compie quelle opere che vede fare convenientemente da quella, e nient’altro: non può, infatti, provare in se stesso nessuna di quelle cose che sono al di fuori della sua natura, per il fatto che è da quella.
Per esempio, la natura del Padre è misericordiosa: il Figlio allora, vedendo che l’essere misericordioso fa parte naturale di quella, poiché è da lui, è anch’egli, per natura, misericordioso, e non può essere qualcosa di diverso da quello che è la natura. Egli, infatti, ha dal Padre sia la natura che i beni che derivano da questa (naturalmente, in modo semplice e senza composizione, perché è Dio). Perciò, sapientemente, aggiunge subito: «Poiché quanto questi fa, il Figlio ugualmente lo fa», riassumendo in queste parole tutto, per così dire, il significato di quelle parole, che non può fare nulla da sé, se non ciò che vede fare dal Padre.
E se ricerchi il motivo per cui il Figlio dice queste cose, farai attenzione con più diligenza alle parole dette da quelli.
Dunque, poiché egli aveva avuto misericordia del paralitico in giorno di sabato, i Giudei cominciarono a perseguitarlo. Ma Cristo li confuse, facendo presente che Dio Padre mostra la sua misericordia di sabato. Infatti non pensò di dover vietare ciò che giova alla nostra salute. E all’inizio, disse: «Il Padre mio continua ad operare, e anch’io opero». E poiché, per la loro insipienza, sembravano irritati da queste parole, soggiunge di nuovo: «Il Figlio non può fare nulla da sé, ma soltanto quello che vede fare dal Padre. Quanto questi fa, tanto fa similmente il Figlio».
Poiché il Padre, egli dice, non si rifiuta di aver misericordia di sabato, giacché vedo la sua misericordia dappertutto, perciò sono misericordioso dappertutto anch’io, che non posso cambiare in me stesso la natura del Padre, sì da non apparire e non essere tale quale egli è per natura. Tutto ciò che è di lui io lo opero senz’altro in quanto sono da lui.
Dire, poi, che il Padre inizia prima le opere, è l’ultima pazzia. Come può dirsi che egli abbia cominciato in disparte e da solo, quando sappiamo che il Figlio è la sua potenza con la quale opera in tutto, e che, fin dall’eternità, è in lui, ed esprime la sua volontà e il movimento nell’agire?
E se stoltamente sostengono che egli aspetti per ogni opera l’azione propria di Dio perché la imiti, ci dimostrino che il Padre abbia mai operato in disparte e da solo, oppure anche in che modo egli, dopo aver guarito il paralitico, abbia dato l’azione come prototipo [ώς εν τύπω] per il Figlio.
tratto da Cirillo di Alessandria, Commento al Vangelo di Giovanni, I, Città Nuova, pp. 316-325