Abba Poemen ha detto ancora: “Se l’uomo si ricorda di ciò che dice la Scrittura: ‘Tu sarai giustificato dalle tue parole e dalle tue parole sarai condannato’ (Mt 12,37), sceglierà piuttosto di tacere” (Poemen 42)
Questa sentenza è ancora di Poemen, il grande oracolo e il grande silenzioso. O piuttosto è il ricordo di una parola di Gesù in Matteo (Mt 12,37) che conclude una breve parabola sull’albero e i suoi frutti. È dai frutti che si riconosce l’albero. Perché è per la sovrabbondanza del cuore che la bocca parla. Quindi noi siamo giustificati o condannati dalle parole che diciamo. Poemen ne deduce che è preferibile tacere.
Non si tratta di condannarsi a un silenzio perpetuo. La carità ci obbliga, a volte, a parlare. Ma l’anziano vuole attirare la nostra attenzione sulla serietà dell’uso della lingua. Nessuna parola è indifferente per colui che la pronuncia o per colui che l’ascolta. C’è la parola che consola, la parola che conforta, la parole che fa vivere, ma c’è anche la parola che irrita, la parola che ferisce, la parola che uccide. Quando intuiamo che una parola, pronta a uscire dalle nostre labbra, rischia di fare del male, cerchiamo di trattenerla. Se ci scappa, sforziamoci di recuperarla, aggiungendo qualche antidoto che possa subito guarire il male.
commento al detto di Lucien Regnault
in Lucien Regnault, Ascoltare oggi i padri del deserto, Qiqajon, pp. 92-93