C’è un’epoca, un’epoca molto vicina a quella nella quale è diventato monaco abuna Fanus del monastero di san Paolo l’eremita in Egitto, che ieri, 20 aprile 2016, ha lasciato questo mondo, e che io chiamo la “bell’epoca”. Ecclesialmente potremmo definirla “epoca della benedizione”. Di questa generazione fanno parte monaci come abuna Andraus del monastero di san Samuele nel deserto di Qalamun, abuna Faltaos del monastero dei Suryan, abuna ‘Abd al-Masih al-Mas‘udi, abuna Tanago, abuna Awad, abuna Mansur del monastero del Baramus. È una benedizione solo il Signore può elargirla e per questo non potrà mai finire.
Con la scomparsa di abuna Fanus, la Chiesa copta perde una tipologia rara di padri del deserto che hanno conosciuto un monachesimo povero, il monachesimo della morte volontaria. Questi monaci hanno amato e abitato il deserto in un’epoca in cui i monasteri erano ignoti al mondo: non esistevano né strade asfaltate, né mezzi di trasporto, né mezzi di comunicazione. Questi monaci facevano affidamento, per i loro rifornimenti annuali, a caravane sgangherate e non hanno conosciuto né lusso, né viaggi, né ospiti, né il mescolarsi con il mondo. La loro vita era una morte che non conosceva nient’altro che la risurrezione insieme a Cristo.
Chi, come loro, ha abitato questi deserti desolati e reconditi può attendere dalla sola mano di Dio una sazietà di fronte a una fame che la pochezza e la povertà estrema della vita monastica che viveva gli imponevano. Persone come queste si riscaldavano al calore della Parola di Dio per far fronte al rigido freddo invernale, vivendo in celle di fortuna, spesso senza tetto, mancanti delle minime condizioni umane di abitabilità. Ho visto con i miei occhi la cella di abuna Iustus del monastero di sant’Antonio sul mar Rosso. Non aveva né porta né tetto. Il monaco usava un piccolo tappetino consunto per dormire e un coccio rotto di un vaso in terracotta per bere e mangiare. Aveva un solo abito scolorito e consumato dai raggi del sole. Quando voleva lavarselo scendeva tutto intero in una sorgente e se lo lasciava addosso fino a che non si asciugasse.
Per chi ha scelto una vita simile, solo Cristo può diventare tutta la sua vita, tutta la sua sazietà, tutta la sua gioia, la sua sicurezza, la sua pace. Il cielo non può, davanti a persone così, non essersi spalancato e aver riversato su di loro i suoi beni celesti e il suo sostegno. Con gioia interiore hanno potuto vedere la gloria di Dio che ha preso il posto del padre, della madre, della moglie, dei figli, degli amici. Cristo diventa per chi ha lasciato costoro per lui, cento volte di più secondo la sua promessa indefettibile. Se mi sbaglio, allora ditemi come è riuscito a vivere abuna Andraus, lui che era cieco dalla nascita, in mezzo alle rovine del suo monastero abbandonato per quattro mesi interi?
Questi monaci non si interessavano né al loro aspetto né alla loro esteriorità. L’unica cosa che interessava loro era la loro vita interiore. Quando, per esempio, vediamo il semplice fazzoletto che abuna Fanus si metteva in testa e la sua tunica consumata ci meravigliamo. Quando vediamo abuna Domezio del monastero di al-Muharraq a piedi scaldi che ti dice che è indegno di calpestare la terra perché è sacra restiamo senza parola. Mentre i mondani si prendono gioco di abuna Tadrus del monastero di sant’Antonio e di tutti questi altri folli in Cristo, questi ultimi gioiscono perché sono riusciti a rifuggire la gloria del mondo ottenendo la beatitudine dalla bocca di chi ha riconosciuto la loro luce interiore che brillava mediante la grazia divina.
Una volta un giovane ha chiesto, in maniera ironica: “Ma che cosa se ne faranno mai la Chiesa e l’umanità di questa gente che si è isolata dal mondo, sfuggendo alla responsabilità del servizio e vivendo per loro stessi, circondati da così tanta ignoranza e povertà?”. Al che abuna Mattaus del monastero di al-Suryan, persona molto semplice, gli ha risposto nel suo simpatico dialetto meridionale: “Figliolo, da noi, nel nostro villaggio nel meridione, c’è una centrale per la produzione di energia elettrica. Ci lavora gente vestita con abiti sporchi e con le mani callose. Alla gente fa schifo avvinarsi a loro perché puzzano di sudore. Eppure sai, figliolo, è questa gente qui che dà luce al villaggio!”. Con questo loro aspetto semplice e a volte bizarro, crediamo questi folli in Cristo poveri ignoranti, privati come sono stati davvero, dell’istruzione di cui gode il mondo. Ma chi si avvicina al loro tesoro spirituale si meraviglia della sapienza che sono riusciti ad acquisire.
Negli anni Sessanta dello scorso secolo ho avuto modo di aiutare un monaco cieco che abitava al monastero di san Pishoi nel Wadi el Natrun che si chiamava abuna Ibrahim. L’ho aiutato a scrivere un libro: “Concordanza di versetti biblici a uso omiletico”. Sono rimasto stupito, incredibilmente stupito, della sua incredibile capacità di ripetere a memoria interi capitoli delle Scritture. Non ho trovato nessuno che fosse capace come lui di ricordarsi di versetti biblici con i loro riferimenti corretti, sia nell’Antico che nel Nuovo testamento. L’unico che ho trovato capace di fare una cosa del genere è Google! Quanto mi pento ora di non aver scritto o registrato il suo commento spirituale a questi versetti! Quelle poche cose che mi ricordo sono per me fonte di grande consolazione e di gioia indicibile.
Lontani dal mondo, questi uomini non hanno desiderato cariche o posizioni e non si sono immischiati mai nelle politiche ecclesiali. Hanno rifuggito, invece, in ogni modo il sacerdozio con tutte le sue responsabilità e conseguenze e hanno incarnato per noi, in maniera viva, quelle storie che leggevamo nei libri di storia della Chiesa nelle quali i monaci venivano trascinati legati a dei cammelli e venivano ordinati a forza mentre le lacrime che scorrevano ci raccontavano di storie di umiltà vera che ci confessa il loro sentirsi incapaci e deboli. Allo stesso modo scopriamo in loro la potenza e la sapienza della grazia divina che li ha ricompensati arricchendo, grazie a loro, tutta la Chiesa.
Eccomi, infine, dire addio al luminoso abuna Fanus. Nell’interesse dimostrato dagli egiziani per la sua morte – cristiani e anche molti musulmani – e nel loro amore per lui, nel loro fare a gara per ottenere la sua ultima benedizione, riesco a vedere il desiderio profondo che li abita di una vita di santità, una vita di sostanza e non di esteriorità. Quanta falsità, infatti, ci circonda disturbandoci con il suo rumoreggiare e con tutta quella ruggine che la ricopre. L’oro, invece, con il suo luccichio splendente, rimane in silenzio, ricoperto da un corpo fatto di terra, fino al momento in cui se ne spoglia, scrollandosi di dosso la polvere.
Addio, anzi arrivederci, Luce del deserto. Siamo certi che la luce della tua lampada [in arabo Fanus, il nome del monaco, vuol dire “lampada”, N.d.T. ] non si spegnerà mai ma che, anzi, diventerà sempre più intensa e andrà ad accendere nuove lampade nei nostri deserti e nei nostri monasteri. La benedizione, infatti, viene dalla mano di Dio. Ed è per questo che non finirà mai.
padre Bisanty Gerges