Una preziosa riflessione di una monaca ortodossa ucraina sul primato di fede, speranza e amore.
Per chi è sensibile alle realtà spirituali è commovente l’atteggiamento dei 21 copti uccisi su una spiaggia della Libia dai boia dell’IS: la fede più forte della paura della morte che li fa invocare fino all’ultimo il nome del Signore Gesù. Erano semplici contadini andati in un paese straniero per trovare lavoro col quale mantenere le loro famiglie, gente povera, senza grande cultura, ma in cambio ricca di fede, che ci rammenta le parole dell’Apostolo Paolo: Prendete l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove… afferrate sempre lo scudo della fede (Ef 6,13.16). Conoscevano queste parole? Le avevano sentite lette in chiesa? Le ricordavano? Non importa. Le vivevano.
Come mostrano le parole dei loro parenti dopo la loro uccisione, una fede forte e profonda faceva parte di tutto il loro ambiente familiare. “Possa Dio salvarli, aprendo i loro occhi”, augura ai boia il fratello di due martiri uccisi. La loro madre dice che se incontrasse per strada il boia dei suoi figli, lo inviterebbe a casa “perché ci ha aiutato ad entrare nel regno dei cieli”. Sono persone povere e semplici, ma possiedono il grande tesoro della fede in Dio, nel Salvatore Gesù Cristo, nella vita eterna, nel Regno dei cieli.
Qualche settimana prima di questo avvenimento, un amico di Kiev mi scrisse di un’altra madre, che pure perse un figlio, anche se in circostanze molto diverse. Suo figlio 25-enne andò come volontario nell’esercito ucraino e fu mandato a vigilare sui confini orientali dell’Ucraina. Un giorno si recò al posto di blocco per bere una tazza di te caldo, e, mentre beveva, una bomba cadde su loro e lui rimase morto sul colpo. Umanamente, una tragedia per la madre, ma questa madre, nonostante tutto il dolore che sentiva, ne fu anche consolata. Aveva pregato, infatti, che suo figlio non uccidesse nessuno — e Dio esaudì la sua preghiera.
Per tanti, anche quelli che si sentono credenti, tale preghiera sembrerebbe folle. Uno prega per la salute, per la vita, per sé e per i suoi cari. Certamente questa donna pure desiderava che il figlio tornasse sano e salvo a casa. Ma più della salute del corpo, le stava a cuore la salute dell’anima del figlio, non voleva che lui trasgredisse il comandamento di non uccidere, anche difendendo il proprio paese, la propria gente, incluso anche la madre. Tutte le ragioni umane, tutta la saggezza di questo mondo avrebbero scusato il giovane. Ma la madre, come la madre dei giovani copti uccisi, viveva su un piano più profondo spiritualmente, il piano delle realtà eterne di Dio. Madre e figlio non erano pacifisti ad ogni costo, il giovane andò volontariamente nell’esercito e la madre non si oppose; la madre pregava solo che il figlio non si macchiasse del sangue dell’uomo, suo fratello.
Le due madri, quella copta e quella ucraina, sono donne semplici, non erudite. Leggendo di loro, vengono alla mente le parole di Gesù, l’unica volta nei Vangeli che Gesù viene descritto esultante di gioia: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc 10,21).
Gli intellettuali e i dotti avrebbero trovato mille scuse per evadere il martirio facendo compromessi con la propria coscienza e avrebbero trovato la reazione delle due madri di fronte alla morte dei loro figli priva di senso. La storia del cristianesimo, antico e moderno, ci fornisce tante altre illustrazioni delle parole di Gesù. Durante il regime comunista nell’URSS era rarissimo vedere un intellettuale — un professore, un accademico, un professionista — in chiesa, anche se si ritenevano credenti. Avevano tante buone ragioni di tenere nascosta la loro fede — bisogna pensare al posto di lavoro, all’istruzione superiori per i figli. Chi frequentava le chiese, chi non aveva paura di danni materiali e neanche di arresto erano le persone semplici — operai, contadini, che non avevano paura di esporsi a mille vessazioni a causa della loro fede. Sono essi che figurano negli elenchi dei nuovi martiri. Tanti di loro, come i 21 martiri copti, non sarebbero stati in grado di discorrere sulla loro fede, ma la fede era per loro la cosa più preziosa nella loro vita.
Ovviamente, tutto questo non significa che la fede non deve essere nutrita attraverso lo studio. Lo studio, lo sforzo intellettuale rappresenta un’attività altissima dell’uomo. La vita è un valore, ma non è il valore supremo — ci sono cause, come la fede cristiana, per le quali è necessario sacrificare anche la vita. Così pure l’attività intellettuale dell’uomo non è l’attività più alta: lo è professare la fede e vivere la fede anche quando viene minacciata la vita o il benessere. E solo una fede profonda può suscitare anche l’amore più alto, quello di perdonare i nemici e di desiderare per loro la salvezza.
madre Sophia Senyk
monaca ortodossa ucraina
del Monastero di Bose