di Luca MIELE (tratto da “L’Avvenire” del 17 novembre 2012, pag. 27)
Una sorprendente fedeltà lega le parole, la vita e la testimonianza di Matta El Meskin (1919-2006) al monachesimo orientale primitivo: quel giacimento di esperienze che è stato la culla dell’intera tradizione monastica cristiana. Comuni i luoghi, identica la radicalità delle scelte. Di Matta El Meskin, l’editrice Qiqajon pubblica lo scritto postumo La gioia della preghiera in un momento significativo nella vita della Chiesa copta ortodosossa: l’insediamento del nuovo patriarca Anba Tawadros.
Padre spirituale del monastero di San Macario in Egitto, el Meskin compì il suo itinerario di fede totalmente, come testimoniano i nove anni trascorsi in compagnia di un pugno di monaci in grotte scavate a mani nude. Identica la costellazione di pensieri ed esperienze sotto la quale si iscrive la sua vicenda spirituale. Se nella tradizione monastica l’ascesi si configura non come semplice rinuncia, ma invece come lotta, agone, «una guerra continua» (Simeone il Nuovo teologo), un combattimento che mira «a spezzare la morte per giungere alla vita» (Pseudo-Macario), una guerra a un avversario elusivo «il nemico che è dentro di voi» (Giovanni Cassiano), la stessa grammatica dello «sforzo» (Isacco di Ninive) si trova intatta nell’insegnamento di Matta El Meskin. Quello che si svolge nell’animo del monaco è un vero e proprio dramma. Il linguaggio che lo cattura è bellico, la sua tonalità agonistica dice tutta l’asprezza di un confronto che può rivelarsi mortale. In gioco c’è la liberazione dall’«uomo vecchio», il parto «dell’uomo nuovo». Anche Dio partecipa a questa lotta, come scrive l’igumeno: «Dio inizia ad assediare l’ego, ad assoggettarlo per poi annientarne il potere, denunciandolo e facendolo morire». Una lotta sotto la quale l’ego si curva, si piega, finendo per indirizzare verso se stesso l’odio destinato al «nemico». «Così Cristo ci dipinge l’ego come il vero nemico, l’unico nemico che ostacola la salvezza dell’uomo e il suo passaggio alla vita eterna». L’ego è «un guscio oscuro che ostacola lo spirito». E’ il motivo centrale della philautia, «l’amore egoistico di sé – come la tratteggia Enzo Bianchi – una brama perseguita a ogni costo, anche senza gli altri e addirittura contro gli altri: una preoccupazione esclusiva per il proprio interesse».
Ma se la cittadella dell’ego «si oppone a Dio», come espugnarla? Come vivificare ciò che è spiritualmente morto? Come illuminare ciò che è avvolto dalle ombre? Per Matta c’è una via privilegiata che supera tutte le altre: è la preghiera. Anche qui la sua testimonianza si riconnette al cuore incandescente del monachesimo primitivo. La preghiera non come semplice invocazione ma come esercizio mnemonico perenne («il ricordo di Gesù faccia tutt’uno con il tuo respiro», Giovanni Climaco) e al tempo stesso performativo che porta alla trasfigurazione, al «cambiamento di forma». Un itinerario che richiede «un cambiamento» radicale e che pretende «la sottomissione di noi stessi alla guida dello Spirito Santo». Un esercizio «severo», di più «crudele». Ma che ricompensa: «Se ti spogli veramente di te stesso, allora otterrai una forza autentica che domina misticamente tutte le cose insime, comee se una mano suprema impugnasse, guidasse e dominasse ogni cosa in modo totale»
Matta El Meskin, La gioia della preghiera, Qiqajon. Pagine 154. Euro 14,00
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